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Ogni volta che le forze politiche del centrosinistra si riaffacciano al governo del Paese, riemerge il mantra della riduzione del cuneo fiscale. Accadde ai tempi del governo Prodi, quando il cosiddetto “tesoretto” fu speso per un totale di 7 miliardi e mezzo di euro, con effetti economici complessivi trascurabili ed effetti politici non proprio esaltanti, visto che lo stesso professore bolognese ha ricordato in un’intervista al Fatto Quotidiano che “il giorno dopo ci sputarono sopra”, arrivando addirittura a definirla come “un’esperienza scioccante”.
Accadde poi anche ai tempi di Matteo Renzi. Appena insediato a Palazzo Chigi, a via XX Settembre si cominciò a parlare di una misura che potesse alleggerire mediamente di 50 euro al mese il salato conto fiscale sul lavoro dipendente. Il costo stimato variava tra i 10 e i 25 miliardi e si finì per adottare una misura temporanea e selettiva di decontribuzione sui nuovi assunti che è passata impropriamente alla cronaca giornalistica come un pezzo del Jobs Act. Benché tecnicamente diversa, perché riguardava solo la platea dei nuovi assunti e si concentrava sulla parte contributiva e non fiscale del cuneo, la misura comportò un costo annuo finale per le casse dello Stato assai vicino a quello dell’intervento, prima ricordato, del governo Prodi.
Simili, ovvero deludenti, furono anche gli effetti economici. Pure gli effetti politici furono di nuovo “scioccanti”, se è vero quello che si legge negli ultimi documenti congressuali del Pd, ovvero che le politiche sul lavoro, pur gravando non poco sulle casse pubbliche, sono state determinanti nell’esito elettorale del 2018, anch’esso definito “scioccante”. Ma poiché non c’è due senza tre, con questo ritorno al governo delle forze del centrosinistra ritorna in auge questa misura. Al momento essa è più magra, “solo” 2,7 miliardi per il prossimo anno, ma con la promessa di arrivare anche stavolta a cifre comparabili a quelle delle analoghe misure del passato.
Prima di imbattersi nuovamente in qualche esito “scioccante”, sarebbe utile chiedersi se chi ripropone questa politica pensi che qualcosa sia cambiato o, al contrario, se l’autocritica della sinistra sia diventata un po’ come l’istituto cattolico della confessione, che serve a espiare le colpe passate, nell’attesa di una nuova manifestazione dell’umana tensione verso il peccato. C’è però una terza possibilità, ovvero convincersi che “this time is different”, non tanto perché siano mutate le condizioni, ma perché la misura è diversa nel merito. E in effetti un po’ di originalità c’è. Nello specifico si tratterebbe di un credito di imposta del valore di circa 20 euro al mese per il prossimo anno, che salirebbero a 40 l’anno successivo, qualora si reperissero ulteriori risorse e il governo rimanesse in piedi, resistendo agli esiti delle imminenti elezioni regionali e alle pulsioni dei suoi sostenitori.
Una prima novità di merito è l’estensione della platea, che rende l’intervento relativamente marginale per chi lo riceve, pur se non marginale per le casse dello Stato. A “regime”, si tratterebbe infatti di circa 5,6 miliardi l’anno, ovvero una cifra equivalente a quella della spesa totale in ricerca delle università italiane e superiore alla spesa annua per la protezione ambientale (4,8 miliardi). In termini di possibili alternative, quella cifra consentirebbe di assumere una maestra d’asilo per ogni 20 bambini tra 0 e 4 anni. Questo particolare rapporto tra i costi e i benefici, tipico degli interventi sul cuneo fiscale e contributivo, non è certo dovuto alla politica o a un gruppo di tecnici in malafede; esso dipende dal semplice fatto che le entrate del cuneo costituiscono la quota maggioritaria delle entrate complessive dello Stato, e che i lavoratori dipendenti sono circa 18 milioni.
La platea dell’intervento è in realtà meno estesa, interessando solo i lavoratori con redditi fino a 26 mila euro, che però sono comunque circa 11 milioni, più o meno gli stessi che beneficiano degli 80 euro del governo Renzi. Rispetto a quest’ultima misura, però, la novità di merito è che, trattandosi di un credito di imposta, essa incide sul computo della pressione fiscale: minore entrata anziché maggiore spesa. Con i proponenti che potranno, a differenza di Renzi, rivendicare di aver “ridotto la pressione fiscale”. La differenza, naturalmente, è solo nominale, non sostanziale. Il fatto, però, che essa non riguardi solo i nuovi assunti, a differenza della decontribuzione del 2015-2016, implica che nel breve periodo, prima cioè che si verifichino quelli che noi economisti definiamo effetti di traslazione che potranno portare a una riduzione del salario lordo, i beneficiari saranno principalmente i lavoratori – godranno di un beneficio in termini di salario netto – e non le imprese. In altre parole, prenderà la forma di un intervento redistributivo. Ma qui sorge un problema.
Se non siamo di fronte all’ennesimo e vano tentativo di rilanciare l’occupazione diminuendo al margine il costo del lavoro, ma a un intervento a favore delle famiglie con redditi medio-bassi, allora non si capisce perché tale intervento debba escludere le famiglie che non sono composte da lavoratori dipendenti, cioè le famiglie con redditi bassi composte da artigiani, lavoratori precari, partite Iva, pensionati e disoccupati in cerca di lavoro. Insomma, quelli che sarebbero esclusi da questo intervento di sostegno non rientrano esattamente nella categoria dimaio-salviniana dei “divanisti”. Si tratta, quindi, di un sostegno a una parte, per quanto maggioritaria, di percettori di bassi redditi, quelli che percepiscono “salari”.
Ma se anche fosse ritenuto politicamente giusto un intervento mirato esclusivamente sui bassi salari, intervenire sul cuneo sarebbe un po’ come tentare di rifarsi una vita partendo dal cimitero. Per intervenire sui livelli salariali, l’alternativa alla defiscalizzazione è l’aumento della produttività, tema su cui esiste una sterminata letteratura economica. Mi limito qui a una citazione, approfittando del fatto che oggi abbiamo un ministro dell’Economia (finalmente) politico e non tecnico che in gioventù frequentava un istituto intitolato all’autore di questa citazione, presso il quale si custodisce l’originale autografa della stessa:
“Che l’operaio italiano (come media) dia una produzione relativamente scarsa può essere vero: ma ciò dipende da ciò che in Italia l’Industrialismo, abusando della massa crescente di disoccupati (che l’emigrazione solo in parte riusciva ad assorbire) è stato sempre un industrialismo di rapina, che ha speculato sui bassi salari e ha trascurato lo sviluppo tecnico”: Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, 1934.
Fabrizio Patriarca, economista, è ricercatore in Politica economica all’Università di Modena e Reggio Emilia