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Se è vero che le politiche verso i più deboli, i più fragili, sono la misura delle politiche per tutti, la Regione Marche non sta dando un buon esempio. In questo territorio, riflettendo di politiche sanitarie, spesso dimentichiamo che le politiche sociali sono le loro “sorelle gemelle”. E in tema di prevenzione e promozione esse sono “le sorelle maggiori” in termini di importanza. Vale la pena ricordare che la delega al welfare, unita a quella già impegnativa della sanità, è a capo del presidente Ceriscioli.
La Regione in queste settimane dovrebbe (il condizionale è rigorosamente d’obbligo quando si parla di partecipazione e di programmazione) predisporre il Piano sociale e il nuovo Piano sanitario. Sul primo argomento, la discussione con i soggetti coinvolti sembra essere iniziata con le giuste premesse, ma senza il tema cruciale, ovvero quello delle risorse da dedicare alle politiche sociali. Vale la pena ricordare che i tagli nazionali al Fondo per le politiche sociali di questi ultimi anni (che non hanno risparmiato nessuno: disabili, famiglie, giovani, non autosufficienza) hanno ridotto il Fondo nazionale nel periodo 2008-2017 da 1,5 miliardi ad appena 290 milioni di euro, mentre la quota riservata alle Regioni, nello stesso periodo, è passata da 671 milioni ad appena 277.
La Regione, dal punto di vista delle scelte politiche, ci ha messo del suo. Infatti, a partire dal 2015, le risorse proprie del bilancio della Regione dedicate al sociale, già insufficienti, sono state drasticamente tagliate, passando da poco più di 30 milioni di euro a circa 3 milioni, sostituite pressoché integralmente dal Fondo sociale europeo che, invece di essere dedicato a progetti innovativi e aggiuntivi, ha in parte compensato i tagli della Regione. Ma il Fondo sociale europeo non ha la funzione della gestione di servizi e interventi sociali, per diverse ragioni quali la sua complessità, i forti vincoli che presenta (tutto è già deciso a monte e non si possono gestire servizi su misura di un territorio), i forti vincoli burocratici ai quali è sottoposto, le giuste e rigide regole di rendicontazione amministrativa che sottraggono tempo di lavoro prezioso agli operatori sociali.
La scelta delle Marche di sostituire pressoché integralmente le risorse del bilancio proprio con le risorse europee non è obbligatoria né tantomeno seguita da altre Regioni che, al contrario, lo utilizzano per implementare servizi innovativi e non, come accade da noi, per pagare, ad esempio, i tirocini di inclusione sociale ai disabili oppure il personale del tutoraggio e dell’assistenza educativa, oltre che le assistenti sociali. Non solo: negli ambiti sociali territoriali, già in difficoltà per le scelte di bilancio della Regione e l’assenza di una programmazione sociale condivisa con il sistema degli enti locali, così come nei Centri per l’Impiego (strutture fondamentali nelle politiche di inclusione sociale e lavorativa), i dipendenti sono in maggioranza precari, a tempo determinato o in appalto. Stiamo parlando di 152 precari contro i 128 a tempo indeterminato (dato riferito a tutti i 23 Ats della regione nel 2017).
Un riscontro statistico a queste affermazioni si può agevolmente trovare nella recente ricerca sui bilanci 2016 delle regioni italiane, promossa e realizzata dalla Cgil nazionale e da Ires Cgil “Morosini” presentata ad aprile di quest’anno. Da qui si evince come le Marche si collochino tra le prime tre regioni italiane per incidenza della spesa sanitaria (Missione 13 – Tutela della salute) sul bilancio complessivo di spesa corrente. Su un totale di spesa corrente pari a circa 3,5 miliardi, infatti, la sanità incide per ben l’87,2 per cento della spesa complessiva, mentre nella spesa per diritti sociali le Marche sono ultime, con il Molise, tra le 17 regioni prese in esame, con un misero 0,5 per cento. Il risultato cambia di poco se si guarda all’incidenza della spesa per diritti sociali, al netto della spesa sanitaria. Qui siamo terzultimi, con il 4,2 per cento di incidenza della spesa sociale sulla spesa corrente, peggio di noi ci sono il Molise e la Sicilia.
Il nostro territorio provinciale, con le sue amministrazioni locali e i suoi operatori da sempre attenti innovatori delle politiche dei servizi e degli interventi sociali, è quello sicuramente più penalizzato da queste scelte. Alcune amministrazioni, solo quelle che se lo possono permettere in tema di bilanci (una per tutti il Comune di Pesaro), hanno tentato e stanno tentando di compensare i tagli, o l’impossibilità di spendere diversamente, per servizi di cui c’è effettivamente bisogno, aumentando con fondi propri la spesa sociale non vincolata. Così hanno fatto anche alcuni Comuni dell’entroterra, nei rispettivi ambiti sociali, tra mille difficoltà di bilancio. Il rischio, per il nostro territorio provinciale, è quello di un livellamento verso il basso della qualità e della quantità dei servizi e degli interventi sociali erogati, così come delle politiche attive per il lavoro, anch’esse ormai accentrate a livello regionale. L’appello, ancora una volta, è rivolto a chi ha la titolarità di queste politiche, cioè Comuni e Regione: non lasciamo soli i più deboli, le politiche sociali sono l’ago della bilancia per uno sviluppo equo e sostenibile.
Simona Ricci è la segretaria generale della Cgil di Pesaro e Urbino