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Fine anno tempo di bilanci e a dieci anni esatti dall’inizio della “grande crisi” per il Piemonte il consuntivo continua a mostrare criticità che si scaricano prevalentemente sul lavoro. Dopo anni di “decrescita infelice”, la regione è uscita tecnicamente dalla recessione nel secondo semestre del 2014, ma la dinamica della crescita conferma che il 2017 continua a essere l’anno della ripresa senza lavoro. Si muovono verso l’alto tutti i principali fattori di produzione, le imprese guardano con ottimismo al futuro e fanno previsioni di investimenti nel 2018, mentre nel mercato del lavoro sembra esserci una calma piatta.
In realtà anche qui qualcosa si muove, ma è prevalentemente precario, intermittente e instabile. Lo ha confermato nell’ultimo aggiornamento congiunturale di novembre anche l’ufficio studi della Banca d’Italia regionale: a trainare la domanda di lavoro sono soprattutto i contratti a termine, con un contributo importante dei rapporti di lavoro intermittente e con il concorso delle missioni di somministrazione (+22%) e dei tempi determinati standard (+20,4%). Per l’Ires Piemonte questo dato è ancora più allarmante se paragonato con quanto succede nelle principali regioni del Nord: l’aumento del tasso di occupazione si ferma a +0,7%, contro l’1,4% registrato nel resto del settentrione, dove Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna raggiungono in media il 2%.
“Il Piemonte – spiega Massimo Pozzi, segretario regionale della Cigl – non si differenzia tanto dalla situazione italiana. La decontribuzione triennale sui nuovi contratti di lavoro voluta nel 2014 dal governo Renzi è stata solo e semplicemente il sasso nello stagno. Oggi che quegli incentivi sono meno vantaggiosi e che si stanno esaurendo, si registra un’impennata dei contratti a termine. A livello nazionale, ha ricordato l’Istat la settimana scorsa, è ormai record. Sono i frutti avvelenati del Jobs Act. In quel testo è contenuta una liberalizzazione spinta del mercato del lavoro che andrebbe rivista”.
Alle imprese, continua il sindacalista, “è di fatto concessa la possibilità di usare la forza lavoro in base alle contingenti esigenze produttive, senza che ci sia una visione di ampio respiro che garantisca un modello di sviluppo capace di assicurare un’occupazione stabile e duratura. E oggi sono soprattutto i giovani a pagarne le conseguenze più gravi. Basti pensare che prima dell’inizio della crisi il tasso di disoccupazione giovanile in Piemonte era circa il 15%, mentre oggi è sopra il 30”.
Insomma, l’aumento del Pil locale negli ultimi tre anni non ha avuto ripercussioni significative nella vita di quelle 189 mila persone che cercano un lavoro e non lo trovano. L’Istituto di ricerca regionale certifica anche che nel biennio 2006-2007 il Pil pro capite del Piemonte, oltre a essere in crescita, superava in media i 31 mila euro. Oggi torna finalmente a registrare un trend positivo che dura da due anni consecutivi, ma rimane ancora sotto i 28 mila euro. L’osservatorio regionale del mercato del lavoro conferma un tasso di disoccupazione al 9,6%, ancora più che doppio rispetto al 2007.
L’Unioncamere regionale ha di recente ricordato che cresce la produzione industriale (+2,7%) rispetto al terzo trimestre del 2016, le imprese conquistano spazi importanti sui mercati internazionali (+5,8%), aumenta il tasso di utilizzo degli impianti (+65%), ormai vicino a livelli di saturazione, e per il primo trimestre del 2018 la maggioranza degli imprenditori prevede di effettuare investimenti in azienda, ma Torino con oltre 16 milioni di ore di cassa integrazione nei primi 10 mesi dell’anno, è la seconda provincia più cassaintegrata d’Italia, dopo Roma, mentre il Piemonte è al terzo posto, preceduto da Lombardia e Puglia.
“La scomoda verità – afferma il professor Giuseppe Berta, docente di storia dell’impresa all’Università Bocconi – è che il Piemonte rispetto alle altre regioni del Nord, sta vivendo un lento declino a cui le principali classi dirigenti stentano a offrire risposte adeguate. Su tutti i dati ne spiccano due in particolar modo: il contributo regionale al Pil nazionale negli ultimi 15 anni si è ridotto del 3%, passando dall’11% all’8,5% e oltre ad un evidente calo demografico, c’è una popolazione sempre più anziana”.
A questo, per Berta, bisogna aggiungere che, al di là della retorica, il settore meccanico è il più importante in regione ed è ancora saldamente ancorato all’indotto auto. Infatti è vero che cresce l’export, ma il 98% del totale è legato alla manifattura con una quota rilevante garantita dal variegato settore auto. Il Piemonte oggi dovrebbe puntare su una logistica di qualità e su un terziario avanzato da far crescere in sinergia con il sistema universitario e della ricerca”.
In realtà mentre in Regione da oltre vent’anni si discute di treni ad alta velocità e del futuro incerto dell’interporto di Orbassano, il nuovo “treno della seta”, quasi come una beffa, parte da Mortara, località lombarda alle porte del Piemonte e arriva a Chengdu in Cina, facendo di quello scalo, in sostanza, l’hub italiano del traffico ferroviario tra Europa e Cina. E anche il terziario avanzato stenta a decollare. In questo senso spicca Torino che sembra aver trovato nell’apertura di nuovi centri commerciali la via per riqualificazione e crescita della città.
E mentre il dibattito pubblico è tutto concentrato a discutere se hanno concesso più licenze di aperture Fassino in cinque anni (17) oppure Appendino in 500 giorni (18), sfugge che la nella nuova mappa della città, la grande distribuzione organizzata (Gdo) prende il posto di industrie, officine e imprese artigiane che negli anni ottanta avevano spinto Torino a 1,2 milioni di abitanti rispetto agli 890 mila attuali. Un terziario povero quello della Gdo, che scatena una guerra tra il reddito medio-basso dalla cassiera dell’ipermercato e i piccoli guadagni del negoziante di quartiere. E alla fine a rimetterci sono entrambi, a vantaggio di grandi multinazionali con Carrefour, che a inizio 2017 ha aperto la procedura di mobilità per 500 lavoratori di 57 ipermercati di tutta Italia, puntando alla chiusura di una struttura nel novarese e lasciando a casa almeno 150 lavoratori.
“Terziario avanzato e logistica di qualità sembrano occasioni perse – riprende Pozzi – ma non bisogna scoraggiarsi. In Piemonte ci sono tante eccellenze su cui costruire il riposizionamento economico della regione. Qualche settimana fa, ad esempio, grazie al buon uso dei fondi europei concertati con la Regione, l’impresa Itt di Barge (CN), che produce pastiglie per i freni, ha presentato il raddoppio del proprio stabilimento dove verranno assunte 100 persone altamente qualificate da distribuire tra linee di produzione e nuovo centro ricerche. Il Piemonte si conferma la regione dove si registrano il maggior numero di brevetti. Semmai il problema è che stenta a trasformare le idee in ricerca applicata. Ma il Politecnico di Torino e il sistema universitario locale continuano ad attrarre cervelli anche dall’estero e soprattutto dalla Cina”.
Poi, conclude il dirigente della Cgil, “c’è un importante polo dell’aerospazio che rappresenta un settore di punta sulla frontiera della nuova produzione industriale. Anche l’agroindustria del cuneese rappresenta un polo d’eccellenza. Inoltre ci sono pezzi significativi di turismo e cultura che mostrano dinamiche di crescita fino a qualche anno fa inimmaginabili per il Piemonte. Le langhe, la regione dei laghi, l’arco alpino sono i nuovi luoghi che sostituiscono nell’immaginario collettivo una regione fatta solo di fabbriche e industrie”. Un paradigma novecentesco che però non va abbandonato, ma a cui vanno affiancate le nuove vocazioni regionali per assicurare a questo pezzo importante d’Italia una crescita e uno sviluppo degne delle principali realtà economiche europee ed internazionali.