PHOTO
È in corso la quarta rivoluzione industriale e, più le persone se ne accorgono, maggiore diventa la percezione del futuro come una minaccia. A vedere nero non sono solo le vittime dell’esclusione sociale, ma anche i ceti medi impoveriti e tutti i soggetti che percepiscono se stessi in una traiettoria socio-economica declinante.
Attivare le persone nell’innovazione continua
La globalizzazione non regolata ha seminato troppe insicurezze e paure, ora ulteriormente alimentate dall’aggirarsi di un nuovo spettro: un’innovazione tecnologica i cui effetti dirompenti e spiazzanti rischiano di mettere fuori gioco le persone con competenze inadeguate.
Le cifre delle persone con bassi livelli di competenze, a rischio di esclusione sociale, sono impressionanti. In Europa 64 milioni di soggetti, più di un quarto della popolazione compresa tra i 25 e i 64 anni, sono in possesso di un titolo di studio non superiore alla licenza media e, secondo l’indagine Ocse-Piaac, in 20 Stati membri la stessa proporzione di adulti si colloca al livello più basso delle competenze alfabetiche, matematiche e di risoluzione dei problemi in ambienti tecnologicamente avanzati, un livello considerato insufficiente per vivere e lavorare oggi.
In Italia le cose vanno anche peggio: quasi la metà della popolazione adulta arriva al massimo alla licenza media e circa il 70 per cento non padroneggia le competenze chiave per il lavoro e la cittadinanza. Non deve stupire se questa ampia fascia di popolazione si ritiene molto vulnerabile e se nutre scetticismo nei confronti delle opportunità offerte dalle società aperte e dall’innovazione tecnologica.
Su questo vasto e profondo malessere sociale sta sviluppandosi nel mercato politico una varietà di risposte populiste accomunate dall’illusione di possibili protezioni delle persone dai cambiamenti: redditi di cittadinanza per tutti, neo protezionismo, uscita dall’euro e ritorno della svalutazione competitiva, blocco dei flussi migratori. Un’alternativa credibile alle risposte fake di populisti e sovranisti è possibile solo realizzando nuove ed efficaci politiche inclusive, che promuovano il sostegno e l’attivazione delle persone nel cambiamento.
In questo senso, appaiono del tutto improbabili sia le riproposizioni delle formule neoliberali centrate sull’astratta espansione di nuove opportunità insite in ogni processo di innovazione, sia le utopie retrospettive fondate sulle nostalgie dei regimi rigidi di tutele e protezioni sviluppati nell’età dell’oro delle socialdemocrazie europee.
Occorre, invece, una nuova capacità di coniugare produzione e redistribuzione della ricchezza, un nuovo e più avanzato intreccio tra interventi di protezione e di attivazione delle persone, che sviluppi le capacità e le abilità necessarie per vivere e lavorare in contesti in continua transizione. Senza uno scatto di innovazione nelle politiche inclusive inevitabilmente prevarranno le ricette populiste, perché, come aveva già capito Oscar Wilde, l’impossibile è sempre preferito all’improbabile.
L’apprendimento permanente contro l’emarginazione 4.0
Nell’era dell’innovazione pervasiva e continua, le nuove sicurezze sono sempre più connesse alla concreta possibilità di esercitare il diritto all’apprendimento permanente. Sostenere e rafforzare le persone nel cambiamento significa innanzitutto renderle attive e capaci di apprendere lungo tutto il corso della vita.
Se, come ci ha ricordato anche il pontefice, “non bisogna rassegnarsi all'ideologia che solo la metà dei lavoratori lavoreranno, mentre gli altri invece saranno mantenuti da un assegno sociale”, se il lavoro è alla base del patto costituzionale di cittadinanza, allora occorre evitare che l’innovazione tecnologica metta ai margini ampie fasce dell’attuale forza lavoro.
Non si tratta solo di “adattare” le persone ai cambiamenti, ma di orientare e condizionare le innovazioni in corso, i cui effetti distruttivi sui posti di lavoro potranno essere più o meno compensati dalla creazione di nuovi lavori anche in ragione della qualità del capitale umano disponibile.
Gli effetti sul mondo del lavoro dell’innovazione tecnologica guidata esclusivamente dagli spiriti animali del mercato sono comprensibili già oggi: una polarizzazione in cui a una minoranza di lavoratori della conoscenza con elevati livelli di istruzione e remunerazione, corrisponde una maggioranza di lavoratori precari “uberizzati”, concentrati nei settori dei servizi a bassa qualificazione e retribuzione.
Per contrastare questa prospettiva occorre contemporaneamente tenere alta l’asticella dei diritti e del valore del lavoro e promuovere un innalzamento diffuso dei livelli di competenza della popolazione. Allora, il primo obiettivo da perseguire è assicurare a ogni persona le competenze chiave per il lavoro e l’esercizio della cittadinanza attiva: una base essenziale per poter attivare i processi di riqualificazione indispensabili per lavorare in contesti produttivi in cui cambia radicalmente il modo stesso di pensare prodotti e servizi, di produrli e commercializzarli.
La nuova sfida cognitiva posta dai processi di innovazione pervasiva e continua di Industria 4.0 è rappresentata, da un lato, dalla certezza della sempre più rapida obsolescenza di tutte le qualificazioni professionali e, dall’altro, dall’impossibilità di una previsione chiara e certa delle competenze specialistiche necessarie nel prossimo futuro.
In questo quadro di incertezza, l’unica soluzione possibile è mettere in grado le persone di apprendere continuamente. Si deve, quindi, puntare su una riattivazione cognitiva della popolazione adulta, assicurare a tutti le basi culturali essenziali per continuare ad apprendere, insegnare a imparare per stare al passo delle trasformazioni veloci e continue, promuovere l’acquisizione di quelle competenze trasversali sempre più determinanti per nuovi modi di lavorare: partecipazione creativa, assunzione di responsabilità, polifunzionalità, team working.
Una strategia nazionale per le competenze
Per un Paese come il nostro, agli ultimi posti in Europa per titoli di studio e livelli di competenze, non dovrebbero esserci dubbi, né ulteriori incertezze da parte di governo e Parlamento sull’adozione di una strategia nazionale per le competenze. Ma così non è: per questo i sindacati confederali, il Forum del terzo settore e le Reti dei Centri per l’istruzione degli adulti e delle Università per l’apprendimento permanente (Ridap, Ruiap, EdaForum) hanno dato vita a un Tavolo nazionale per promuovere l’adozione di politiche per la crescita dei livelli di competenza della popolazione adulta italiana, in coerenza con le indicazioni europee e, in particolare, con la recente Raccomandazione “Upskiling Pathways”. L’obiettivo è di assicurare a tutti le competenze chiave per il lavoro e la cittadinanza e di tendere a far conseguire a tutti titoli pari almeno al terzo/quarto livello Eqf.
Anche questa scelta europea soffre dei limiti delle politiche di austerity attualmente prevalenti nell’Unione, non sono previsti investimenti pubblici all’altezza della sfida posta. Questo non significa che non sia possibile anche nel nostro Paese, insieme alla rivendicazione di nuovi finanziamenti, cominciare a usare al meglio le risorse esistenti oggi spesso disperse in mille rivoli, in azioni inefficaci e, soprattutto, utilizzate quasi esclusivamente a favore della domanda più forte e consapevole: diplomati, laureati, alte qualificazioni professionali.
Per raggiungere la cosiddetta domanda debole, quella meno consapevole e spesso addirittura propensa all’autoesclusione, non basta infatti agire sull’offerta formativa, occorre rendere effettivo il diritto soggettivo all’apprendimento permanente, rimuovendo gli ostacoli economici e di tempo che frenano l’accesso alla formazione degli adulti. Di grande interesse, da questo punto di vista, il recente contratto nazionale del metalmeccanici, che assegna a ogni lavoratore permessi retribuiti e risorse finanziarie per la propria formazione.
Al sostegno e alla sollecitazione della domanda deve poi corrispondere lo sviluppo di sistemi territoriali integrati a regia pubblica capaci di attivare servizi coordinati di informazione, orientamento e certificazione delle competenze. Le norme per la costruzione del sistema dell’apprendimento permanente sono vigenti da ormai cinque anni (legge 92/2012) e non sono nemmeno mancati i necessari accordi in Conferenza unificata. Continua invece a mancare una visione a lungo termine delle prospettive di sviluppo del Paese, indispensabile per un investimento impegnativo e complesso come il superamento del deficit cognitivo italiano.
Lo stallo in cui versano le politiche per l’apprendimento permanente è inoltre il risultato del diffondersi dell’ideologia della disintermediazione sociale, più che mai dannosa in queste materie. È noto, infatti, che tutte le azioni di successo nel campo della formazione degli adulti vedono il protagonismo degli enti locali, delle parti sociali, del volontariato, dell’associazionismo. Le reti territoriali integrate (pubblico e privato sociale; apprendimento formale e non formale; formazione di base, digitale e professionale) sono lo strumento più adatto a intercettare i soggetti con bassi livelli di competenze e a realizzare percorsi utili e motivanti per la popolazione adulta.
Per un Paese come il nostro, così poco propenso all’azione sistemica, la spinta necessaria alla realizzazione di una strategia nazionale delle competenze non può che venire dalle forse sociali, come avvenne con le 150 ore, non a caso, una delle poche esperienze italiane di successo di formazione degli adulti. Lo stesso spirito deve tornare ad aleggiare per un’innovazione 4.0 che metta al centro dignità e qualità del lavoro.
Un Pon per cominciare
Da non perdere l’occasione offerta dai fondi europei (Pon per l’istruzione degli adulti): queste risorse devono essere il più possibile utilizzate per azioni che prefigurino il sistema integrato per l’apprendimento permanente. È possibile cominciare a realizzare percorsi formativi rivolti a lavoratori con bassi livelli di istruzione e disoccupati finalizzati all'acquisizione delle competenze chiave per essere lavoratori occupabili e cittadini consapevoli nell’era 4.0. È del tutto inadeguato pensare a una sorta di addestramento alle competenze digitali attraverso la formazione aziendale.
Nessuna formazione digitale è possibile senza una riattivazione delle competenze minime di base, linguistiche e matematiche, di cui risultano privi il 70 per cento degli adulti italiani, secondo l’indagine Ocse-Piaac. Sarebbe poi inaccettabile una formazione esclusivamente piegata agli interessi aziendali: i percorsi di apprendimento devono tener conto dei progetti di vita delle persone; le competenze comunque acquisite, anche attraverso le esperienze di vita e di lavoro, devono essere certificate, rese riconoscibili e spendibili anche all’esterno del posto di lavoro, nelle transizioni lavorative e per continuare gli studi.
Per questo il Tavolo nazionale dell’apprendimento permanente propone che, come anche contenuto nella Raccomandazione europea “Upskilling Pathways”, i percorsi formativi prevedano: • un bilancio delle competenze in ingresso; • un percorso formativo personalizzato e basato sull'integrazione delle competenze di base, digitali e professionali; • una certificazione conclusiva delle competenze utile per la prosecuzione dei percorsi di istruzione e spendibile nel mondo del lavoro.
L’impegno del sindacato per la diffusione di esperienze formative con queste caratteristiche è un primo, ma significativo passo per lo sviluppo di una nuova capacità di contrattare la formazione e la valorizzazione delle competenze. Un tema che tocca sempre più il futuro delle persone e del sindacato: le competenze appartengono, infatti, al campo del lavoro e ne rappresentano ormai il valore più alto e meno sostituibile. Da esse, inevitabilmente, passa la strada per dare nuova forza al potere contrattuale del sindacato.
Fabrizio Dacrema è responsabile istruzione e formazione area welfare Cgil nazionale