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Nel 2015, all’avvio della campagna “Laboratorio Sud, idee per il Paese”, la convergenza e lo sviluppo del Mezzogiorno erano usciti dall’agenda politica del Paese da tempo e in buona sostanza anche il dibattito pubblico stentava. I due anni successivi hanno visto un ritorno di attenzione politica sul tema, con una serie di interventi governativi, a partire dal masterplan e dai patti territoriali, che hanno spinto sempre più la diffusione di una retorica sulla ripartenza del Mezzogiorno, rafforzata dall’utilizzo di alcuni, timidi, segnali positivi.
Purtroppo, la realtà è sostanzialmente diversa, sia perché il divario di partenza, aumentato negli anni di crisi, è tale da non consentire facili entusiasmi, sia perché – ed è il dato forse peggiore – i segnali di ripresa sono legati in parte a caratteri non strutturali e riguardano le esportazioni e settori dell’economia maturi o a scarsa intensità di capitale. Le politiche messe in campo, tutte basate sull’idea del sostegno all’offerta come moltiplicatore di sviluppo, non hanno inciso abbastanza sull’innovazione, sull’allargamento della base produttiva e della dimensione d’impresa, sulla domanda interna, sulla buona occupazione e non hanno previsto investimenti pubblici sufficienti, indispensabili per generare anche quelli privati.
Soprattutto, non hanno inciso sulle condizioni materiali e sociali delle persone, perpetuando una crisi sociale fatta di povertà, inattività, disuguaglianza, abbandono scolastico, calo demografico, spopolamento e disoccupazione ben al di sopra delle altre aree del Paese. Per continuare a porre con forza la centralità dello sviluppo meridionale come questione nazionale, abbiamo intrapreso un percorso di confronto territoriale, all’insegna del Piano del lavoro, che ci ha portato a incontrare in poco più di due mesi quasi 40 Camere del lavoro in tutte le otto regioni del Mezzogiorno, convinti che solo tramite la condivisione con i territori, partendo dalla mappatura dei bisogni concreti, sia possibile costruire una efficace contrattazione sui temi legati allo sviluppo.
Naturalmente, esistono profonde differenze territoriali in termini di criticità, vocazioni e punti di forza. Questa varietà, legata a una pluralità di fattori storici o contingenti, oltre che a condizioni strutturali del territorio, si pensi anche solo all’insularità, è stata però di certo rafforzata dal decentramento amministrativo. Per quanto sia difficile, quindi, tracciare un quadro complessivo senza rischiare eccessi di semplificazione e generalizzazione, sono riemerse alcune questioni di fondo comuni a quasi tutte le realtà del Mezzogiorno, pur con diverse intensità e sfumature.
Un primo elemento critico, evidente, risiede nella governance del territorio, intesa tanto su un piano politico che amministrativo. Il nostro dialogo con le istituzioni è intenso, ma a volte discontinuo per la frequente mancanza di luoghi stabili di interlocuzione o di volontà degli amministratori, con la percezione diffusa di una certa difficoltà nella programmazione di medio periodo e, soprattutto, nella capacità di coordinamento inter-istituzionale. Da questo punto di vista, è evidente lo scollamento di competenze prodotto dall’incompleto assestamento istituzionale di Regioni, Province e Città metropolitane, così come la difficoltà per i Comuni di fare rete e amministrare in modo sinergico il territorio.
Sono molte le esperienze di protocolli e accordi proposti e sottoscritti, spesso assieme ad altre parti economiche e sociali, non sempre però questi strumenti vedono poi una fase realizzativa adeguata, a causa dell’inefficace risposta politica. Sul livello amministrativo risulta in tutta evidenza la necessità di un rafforzamento della pubblica amministrazione in termini di organico, strumenti e competenze. Tutti questi elementi di carattere istituzionale incidono fortemente sulla capacità di programmazione dello sviluppo territoriale e impongono una riflessione sull’efficacia degli strumenti amministrativi e di governo, comprese le strutture nazionali per la coesione e lo sviluppo. Sugli stessi Patti per il Sud emerge un quadro non confortante, sia dal punto di vista dell’avanzamento della progettazione che della cantierabilità, e manca spesso una governance inclusiva del partenariato economico e sociale.
Sul versante delle politiche industriali il quadro è particolarmente variegato, ma il dato più generale è la perdita o il ridimensionamento di moltissimi insediamenti industriali, cui si accompagnano troppe situazioni di crisi ancora insolute, con il portato di un numero ingente di lavoratrici e lavoratori per i quali mancano, o si stanno esaurendo, ammortizzatori e strumenti di riqualificazione e reinserimento. A fronte di gruppi di insediamento storico che negli anni hanno delocalizzato, interrotto o ridotto le produzioni, non sono intervenuti nuovi insediamenti sufficienti a compensarle. Ciò che sembra mancare è una politica industriale capace di orientare le scelte di sviluppo, indirizzando con decisione gli investimenti sulle filiere di maggior prospettiva, come quelle legate alla transizione e riconversione energetica, alla green e alla blue economy, oltre che su alcuni settori ad alta intensità di capitale potenzialmente innovativi, di cui già sono presenti insediamenti e che in parte rientrano nella Strategia nazionale di specializzazione intelligente.
Dirimente è anche il permanere del deficit infrastrutturale e dei trasporti, questione antica che continua a rappresentare un ostacolo rilevante non solo per lo sviluppo economico, ma anche per la qualità della vita dei cittadini e delle cittadine del Mezzogiorno, nonché elemento che favorisce lo spopolamento delle aree interne e che rischia di determinare nuove aree di marginalizzazione economica e sociale. Sebbene siano innegabili degli avanzamenti e l’avvio di una parziale progettualità su alcuni grandi assi strategici principali, il nostro Paese deve considerare prioritarie tutte quelle opere che consentano un efficace mobilità sul territorio meridionale. La sfida centrale appare proprio quella di superare l’apparente alternatività tra le grandi infrastrutture e quelle, per così dire, secondarie, operando al tempo stesso sull’infrastrutturazione immateriale.
Altro vulnus profondo, da considerarsi vera e propria emergenza, è la mancanza di manutenzione e cura dell’ambiente e del territorio, che sta producendo forti ricadute sia in termini ambientali che economico-sociali. Al riguardo, basterebbe citare i danni devastanti prodotti dai terremoti o dagli incendi boschivi in ampie porzioni di territorio, su cui pesano anche gravi responsabilità istituzionali. Lo sforzo per il contrasto ai rischi ambientali cui siamo più esposti, dai sismi alle alluvioni, dall’erosione costiera alla siccità, è ancora largamente insufficiente, perfino a fronte della disponibilità di risorse nazionali ed europee, complice ancora una volta l’incapacità progettuale e l’inerzia istituzionale.
In conclusione, volendo trarre qualche considerazione parziale su questo percorso, in vista dell’Assemblea generale del 14 e 15 settembre, che vedrà tutta la nostra organizzazione impegnata in una discussione sui temi del Mezzogiorno, si deve partire da una premessa: la Cgil può essere ovunque elemento propulsivo che contribuisce in modo sostanziale alla costruzione del capitale sociale nei territori e agisce come soggetto che promuove lo sviluppo, l’inclusione sociale e l’interesse generale. Sulla base di questa consapevolezza è necessario insistere nella costruzione e promozione di piattaforme territoriali e di una visione organica di sviluppo possibile e sostenibile per il Mezzogiorno, declinando il Piano del lavoro e sapendo che non esistono ricette miracolose, a maggior ragione a fronte dei risultati altalenanti mostrati sia dalle politiche top-down di intervento diretto su singoli settori, sia da quelle incentrate sull’idea di un “localismo virtuoso” e di uno sviluppo generato in modo endogeno nei territori.
Jacopo Dionisio è responsabile Mezzogiorno-area Politiche di sviluppo della Cgil