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Marco ha 57 anni e vive a Milano. Lavora per una piattaforma a chiamata e questa settimana sa già che non lavorerà, non guadagnerà, ma dovrà comunque pagare l’affitto, le bollette, la spesa. Dopo avere perso il lavoro e averne inutilmente cercato uno simile, da due anni opera con una piattaforma che, alla maniera di Uber, gestisce un servizio di accompagnamento su chiamata per persone con limitazioni o difficoltà nella mobilità. C’è chi lo usa per far accompagnare i genitori anziani a fare fisioterapia; c'è il lavoratore disabile che non può guidare e lo usa per recarsi in ufficio; chi va a fare la chemioterapia e non ha nessuno che possa andare con lui.
Marco ha diversi clienti fissi e in questo modo riesce a portare a casa una somma simile a quella di quando era un dipendente. Cosa che oggi non è: la piattaforma gli corrisponde un compenso in base ai servizi effettuati e alla loro durata. Non c’è malattia, non c’è assicurazione, non ci sono ferie. E nemmeno cassa integrazione. Ieri pomeriggio è stato informato che, causa emergenza Coronavirus, tutti i suoi “appuntamenti della settimana” sono stati cancellati. Per lui, come per le false partite Iva, per i lavoratori a chiamata, per tutti coloro che non hanno alcun tipo di tutela in caso di assenza forzata dal lavoro o interruzione forzata delle attività, il Covid-19 rischia di diventare un’emergenza nell’emergenza.
Se per i dipendenti esistono infatti alcune forme di tutela nel caso di chiusura delle aziende o di impossibilità di recarsi sul luogo di lavoro a seguito di un’ordinanza di pubblica autorità, per i lavoratori più deboli, quelli occasionali, a chiamata, della gig economy, non è automaticamente così. Come ha osservato stamattina in un post su Facebook Paolo Terranova, della Fondazione Di Vittorio: “Credo che non sia giusto e che, nell’economia della gestione di questa crisi, governo e Regioni debbano mettere in conto le risorse per tutelare lavoratrici e lavoratori più danneggiati. Mi auguro un impegno collettivo su questo”.