Per West Bank o Cisgiordania s’intende il territorio sulla sponda Ovest del Giordano, circondato a Nord, Sud, Ovest dallo Stato d’Israele. 2.345.000 abitanti di cui il 30 per cento profughi provenienti dalle città occupate da Israele durante la guerra del 1948 e oggi ospitati nei 19 centri gestiti dall’Onu. All’interno dei vari campi profughi personale specializzato e volontari forniscono assistenza sanitaria, economica e didattica.
“Ogni campo ha la sua storia” spiega M. Sobonh, responsabile del Balata Camp di Nablus: 23.600 rifugiati di cui il 40 per cento sotto i 14 anni; migliaia di bimbi che corrono, giocano, strillano tra le strettoie adorne di poster sbiaditi di ragazzini, martirisuicidi, che impugnano mitra e pistole.“Solo qui sono morti più di 200 bambini dall’inizio della Seconda Intifada – continua Sobonh –. Scuola, sport, corsi di computer, giornalino del campo, varie attività didattiche che proponiamo sono l’unica possibilità per rispondere alla violenza e sollevarsi dalla condizione in cui i profughi sono cresciuti”.
Aggiunge un insegnante di giornalismo: “Quale alternativa abbiamo per toglierli dalla strada e dalle cattive influenze se non dare loro gli strumenti per esprimersi e per comprendere i meccanismi della comunicazione”? Jenin Camp, nell’omonima città all’estremità Nord del territorio palestinese, è stato il teatro della battaglia che nell’aprile 2002 portò alla distruzione di oltre il 70 per cento degli edifici. All’entrata del campo vi è una specie di cavallo di troia costruito con gli avanzi delle costruzioni abbattute durante il conflitto.
Cento metri dopo una folla di bimbi armati di sassi, bastoni, bottiglie e cerini infuocati scambia il nostro gruppo di giornalisti per militari israeliani. Istintivamente partono all’attacco: “È difficile cancellare dalla loro memoria il ricordo dei raid dei soldati israeliani – ci spiega il responsabile del campo –. Ancora oggi i soldati sopraggiungono di notte per portare in galera i loro padri e fratelli più grandi”. Tutt’altra storia quella dell’Aqbat Jaber Camp, nella città di Jericho, a pochi chilometri dal Mar Morto.
Questo è stato il primo dei campi profughi palestinesi: nel 1948 ospitava 60 mila rifugiati; oggi ne sono rimasti poco più di 8.500. La città di Jericho è circondata da un territorio fertilissimo, ma purtroppo non è facile coltivarlo a causa della siccità. La maggior parte delle risorse idriche viene venduta, a caro prezzo, dalla compagnia israeliana Mekorot e i costi di desalinazione sono molto alti.
“Così i pochi giovani rimasti sono costretti a lavorare, mal pagati e senza assistenza sanitaria o copertura assicurativa, nelle stazioni balneari o nei kibbutz israeliani”, spiega il rappresentante Unrwa (l’organizzazione dell’Onu che si occupa dei rifugiati) indicando il vicino Mar Morto, occupato lungo tutta la costa dai coloni israeliani protetti dall’esercito. Cosa vuol dire essere profughi oggi? La maggior parte di loro è cresciuta qui e non ha mai visto le città da cui provenivano i loro avi. In quanto rifugiati non hanno diritto a votare per il consiglio municipale.“Questa è la terra dove ci hanno tenuto prigionieri e dove ci hanno abbandonato”, dice uno di loro. È così che un uomo arriva chiamare casa la cella che lo ha tenuto a lungo rinchiuso.
Palestina: 60 anni di campi profughi / SCHEDA
9 ottobre 2009 • 00:00