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Barcellona. La Barcellona che non ti aspetti. Non dopo le manifestazioni infuocate che avevano fatto seguito, prima e dopo il referendum sull’autodeterminazione, alla drammatica escalation di tensione tra i due schieramenti che animano ormai da anni il dibattito politico e sociale in Catalogna, indipendentisti da un lato e unionisti dall’altro. Non dopo lo scioglimento degli organi di autogoverno regionale da parte delle autorità centrali di Madrid. E men che meno dopo l’arresto di buona parte dell’esecutivo destituito (a cominciare dal vicepresidente Oriol Junqueras), con il numero uno della Generalitat, Carles Puigdemont, costretto all’autoesilio a Bruxelles.
E invece, quella che ha preceduto il voto previsto per la giornata di oggi (21 dicembre) è stata una campagna elettorale decisamente sottotono (con l’eccezione di sporadiche scaramucce in qualche dibattito televisivo). Scarsa in particolare la presenza dei militanti dei partiti sostenitori della secessione nelle strade e nelle piazze, quasi assenti volantinaggi e altre forme di propaganda politica tradizionale nei luoghi nevralgici delle città. Abbastanza limitata, insomma, proprio la capacità di mobilitazione di quelle formazioni e di quei movimenti che solo poche settimane fa scommettevano sulla fattibilità di una rivoluzione “nazionalista” dagli esiti sostanzialmente inevitabili: il distacco dal resto della Spagna della sua regione più ricca e industrializzata.
“La verità è che questa percezione di una mobilitazione continua qui non si è mai avuta – spiega a Rassegna il segretario generale di Comisiones Obreras catalane, Javier Pacheco, ex operaio della Nissan, che ci riceve nel suo ufficio al quinto piano della sede di Ccoo, nella centralissima via Laietana –. Si sono registrati, è vero, momenti anche gravi di tensione, ma sempre e unicamente in concomitanza con episodi precisi e puntuali: dagli incidenti provocati dalla polizia in occasione del referendum del 1° ottobre agli arresti di esponenti del movimento indipendentista, prima i due dirigenti dell’Anc, poi i consiglieri dei partiti di maggioranza. Non un processo costante di conflitti, dunque, ma pochi giorni di proteste che, visti da fuori, hanno dato, anche a causa dell’utilizzo non corretto, non neutrale, delle immagini, un’idea di sommovimento sistematico. Con questo non voglio dire che non esista una domanda di indipendenza proveniente da settori importanti del popolo catalano, come hanno dimostrato ogni volta gli appuntamenti elettorali degli ultimi anni. Mi preme semplicemente chiarire che non c’è mai stata, da parte dei movimenti nazionalisti più radicali, un’occupazione permanente delle piazze”.
Rassegna Cosa vi aspettate da queste elezioni?
Pacheco Cosa ci aspettiamo o cosa desideriamo? A me piacerebbe che all’indomani del voto il fronte progressista, che qui è potenzialmente forte, potendo contare – almeno sulla carta – sull’apporto di uno schieramento che va dai socialisti del Psc a Esquerra Republicana e da Comù Podem all’estrema sinistra della Cup, fosse in grado di articolare un patto che abbia al suo centro, come elemento di coesione della società catalana, il recupero dei diritti sociali e del lavoro. Purtroppo penso che, a causa delle forti lacerazioni tra le forze in campo, non ci saranno nemmeno i numeri per formare una maggioranza di governo, con la regione autonoma che risulterà spaccata in due tronconi, da un lato i nazionalisti e dall’altro gli unionisti, senza la possibilità che uno dei due prevalga sull’altro. Naturalmente, se questa mia previsione dovesse rivelarsi corretta, si renderà necessario, al massimo tra sei mesi, il ritorno alle urne, con la conferma nel frattempo dell’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola, che continuerà a fare della Catalogna, per un tempo pericolosamente lungo, una regione commissariata. Detto in altri termini, un disastro totale.
Rassegna Nel difficile momento che sta vivendo la Catalogna, qual è il ruolo di Comisiones Obreras?
Pacheco Il nostro obiettivo principale è sempre stato il mantenimento della coesione sociale. Non va dimenticato che la pluralità e la diversità sono per tradizione caratteristiche della società catalana e che questo non ha impedito, anzi, ha forse permesso alla nostra regione, nel corso di 40 anni di tormentata esperienza democratica, una crescita sociale, economica e anche culturale che non ha quasi eguali in Spagna e nella stessa Europa. Per questo a me piace nel descrivere il ruolo delle Comisiones Obreras della Catalogna utilizzare l’immagine del ponte, perché noi siamo in grado di far convivere in un’unica strategia diritti sociali e diritti nazionali. Da questo punto di vista, non c’è dubbio che il nostro valore aggiunto è rappresentato dal fatto di operare, in qualità di organizzazione sindacale, a stretto contatto con il fattore lavoro. Un fattore che potrebbe rivelarsi fondamentale quando, si spera tra breve, sarà superata la fase più acuta della crisi economica: dico questo perché sono convinto che una volta agganciata la ripresa e, con ogni probabilità, smaltita la sbornia dell’indipendentismo, anche l’elettore di Esquerra Republicana troverà logico e naturale scendere in piazza con noi per rivendicare il rinnovo del proprio contratto di lavoro.
Rassegna In pochi mesi, per colpa di un processo sovranista condotto in maniera unilaterale, quasi 3 mila imprese hanno lasciato la Catalogna. Quanto ne siete preoccupati?
Pacheco Non c’è dubbio: la fuga delle imprese dal nostro territorio è stata una reazione agli avvenimenti a cui si è assistito negli ultimi mesi all’interno delle istituzioni rappresentative e nelle piazze delle principali città catalane. A pesare è stata soprattutto l’incertezza vissuta da molte società e legata al fatto di non sapere cosa sarebbe realmente accaduto, qualora fosse stata proclamata la Repubblica indipendente, in relazione ai rapporti con l’Europa e, di conseguenza, con le diverse partnership che molte di esse avevano costruito con fatica nel tempo. Quando però si parla di questioni così delicate, sarebbe opportuno essere precisi e citare i dati con un minimo di accuratezza. La verità è che il saldo tra le imprese che se ne sono andate e quelle che nell’ultimo anno sono state create da zero, è ancora ampiamente a favore di queste ultime: 14.600, il dato è relativo al mese di ottobre, sono quelle che si sono insediate, mentre più di 4 mila sono le realtà che hanno addirittura provveduto all’ampliamento delle loro attività. Non solo. La Catalogna è la comunità autonoma che più è cresciuta negli investimenti in campo industriale. Con ciò non intendo dire che la fuga di 3 mila imprese non preoccupa il sindacato. Perché dal punto di vista della qualità, la perdita di quelle imprese è pesante, trattandosi di realtà con un volume d’affari importante, a cominciare da alcune delle principali società finanziarie, da CaixaBank al Banco Sabadell.
Rassegna Quanti sono i lavoratori interessati da questa fuoriuscita di imprese dal territorio catalano?
Pacheco I dati non sono ancora ufficiali, dunque non voglio in alcun modo generare inutili allarmismi. Quello che invece posso dire con certezza è che i lavoratori direttamente coinvolti sono una piccola minoranza, riguardando l’obbligo di trasferirsi nelle nuove sedi sociali di altre regioni spagnole solamente alcune figure apicali. Anche questo aspetto va chiarito con precisione: nessuna azienda, intesa come attività produttiva e commerciale, si è ancora candidata a lasciare volontariamente la Catalogna e, di conseguenza, nessuno stabilimento è stato o si prevede verrà svuotato della sua attuale manodopera. Una constatazione che non può non attenuare la preoccupazione per la perdita di alcune importanti sedi decisionali del nostro sistema di imprese.