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Le amministrative e i successivi referendum non aprono un ciclo, sono entro un ciclo più lungo che ormai da alcuni anni sta sgretolando gli assetti bipolari e avrà i suoi esiti definitivi solo a conclusione della legislatura. All’inizio della vicenda va posto il fallimento del bipartitismo cercato come un velleitario colpo di reni per la soluzione alla crisi catastrofica degli anni Novanta. A sinistra la vocazione maggioritaria è stata archiviata dopo la sconfitta del 2008 e con la segreteria Bersani si sperimentano nuovi paradigmi con al centro il tema della ricostruzione di un partito nelle forme oggi ancora possibili.
Questo radicale mutamento di cultura politica (attenzione alla forma partito, recupero dell’idea di rappresentanza, insistenza sulla strategia delle alleanze politiche e sociali) ha accelerato alcuni processi di ridislocazione delle forze in campo. In questa fase, con l’attenzione alla ridefinizione di un soggetto politico organizzato, la sinistra, progettando di fatto gli scenari del dopo Berlusconi, ha accumulato significativi vantaggi di posizione che costringono gli altri a inseguire con visibile affanno.
L’esaurimento palese della narrazione berlusconiana è riconducibile ad alcuni fattori. Il primo, cruciale, è di natura economica. La caduta dei salari e la crisi sociale hanno rivitalizzato un principio di realtà che pareva ormai spento. I morsi della crisi hanno lesionato anzitutto la pelle debole del lavoro, spezzando le illusioni del potere personale di un imprenditore come leva efficace della grande modernizzazione. Ma anche i ceti del commercio, della piccola impresa, del lavoro autonomo, che pure si sono a breve avvantaggiati delle scelte fiscali compiacenti operate dal governo, sono entrati in una grave sofferenza. Il restringimento della domanda interna, che colpisce anzitutto il lavoro nella sua capacità di consumo, sprigiona ricadute complessive e per questo frana la coalizione sociale berlusconiana sprovvista di un’idea di interesse generale.
Il non-governo è la metamorfosi della leggenda di un governo del fare. La povertà sociale chiude la parabola del nuovo miracolo italiano. L’insofferenza del mondo giovanile condannato alla precarietà permanente e all’insicurezza vitale accendono la rivolta. Non c’entra nulla il tratto orizzontale dei nuovi media che strapazzano la verticalità dei vecchi mezzi di comunicazione. Si tratta di ben più profonde ed esplosive dinamiche sociali alle quali occorre fornire uno sbocco politico adeguato.
Oltre all’elemento economico-sociale, che determina la frana irreparabile del consenso sociale a un leader minato anche nel suo ethos privato dagli scandali, ha giocato un ruolo fondamentale l’atteggiamento dell’opposizione. Fortunatamente il Pd non ha prestato molto ascolto alle devianti sirene di giornali amici che con ossessione insistevano nel descriverlo come un partito acefalo e premevano perciò in maniera maniacale sulla necessità di affidarsi a capi carismatici e a seguire papi stranieri con nuove mirabolanti narrazioni.
Non è affatto il nebuloso carisma che spalanca le porte del successo a un partito. È piuttosto un partito ben strutturato e con una cultura politica solida, che consente di mantenere fermo il timone nelle fasi di transizione, a favorire il riconoscimento di un dono carismatico, se proprio si vuole chiamarlo in questo modo, al proprio leader. Il Pd raccoglie un successo che è inatteso solo per gli osservatori superficiali. La verità è che Bersani non ha sbagliato una mossa da quando Fini si è alzato e, puntando il dito indice verso il cavaliere, ha offerto l’immagine simbolica della morte del bipolarismo esangue. La proposta di un governo di transizione che allora Bersani avanzò, il dialogo con i centristi, hanno contribuito allo sfarinamento del potere berlusconiano. Dentro il Pd e in parti della sinistra radicale c’era chi invocava un altro percorso: mistica delle primarie, voto subìto in nome di sua maestà il bipolarismo che non tollerava alleanze, che non consigliava una attenzione paziente a forze che si allontanavano dalla maggioranza.
Dalla crisi del berlusconismo non si può uscire conservando i tratti strutturali di un bileaderismo che ha già sfiancato la democrazia italiana. La via di chi prospetta l’investitura di un leader che con la narrazione e l’affabulazione si presenti all’opinione pubblica con una rediviva forza di incantamento è tutta dentro lo scenario triste del ventennio berlusconiano. La velleità di congedarsi dal tempo colorito della narrazione catastrofica con una narrazione di nuovo conio condannerebbe il paese a scenari cupi di decadenza. L’uscita di scena di Berlusconi ha i tratti di un autentico mutamento di regime. Cioè bisogna affrontarla con un’altra cultura politica, con un’altra coalizione sociale, con un’altra idea della rappresentanza. Per questo oggi l’idea di una ricostruzione del partito politico è centrale, è la vera proposta forte in campo.
A destra con il delfinato si cerca di prepararsi alla fase nuova. L’impressione è che il Pdl sia un partito-cristallo pronto a rompersi in tanti microrganismi a sfondo territoriale. Un collante culturale unitario è difficile che possa venire da Alfano. Il compito di traghettare un partito personale-carismatico-aziendale in un nuovo soggetto con regole, organizzazione, classe politica è davvero arduo. Si tratta con ogni probabilità di una scommessa impossibile. Bisognava impostarla prima e con un personale politico di ben altra qualità. La destra dovrà perciò convivere con la frantumazione imposta dai governatori più forti che daranno vita ai loro partiti personali, con l’autorappresentazione dei territori, soprattutto quelli del Sud, che già da tempo covano la velleità di creare tante formazioni politiche nei piccoli spazi. La destra come forza reale non scomparirà però perché quel tipo di interessi particolaristici cavalcati dalla microimpresa e dal lavoro autonomo ha prodotto Berlusconi, non è stato il cavaliere a creare dal cilindro della narrazione la coalizione sociale cementata dall’antipolitica e dal populismo.
È prevedibile che la Lega, costretta nella dura morsa di un’alternativa secca tra il perire come una costola del berlusconismo al tramonto oppure riproporsi come forza della rappresentanza sociale-territoriale di interessi dinamici, accentui i profili di movimento e accetti talune forme di dialogo con le opposizioni. Anche dinanzi al Pd sembrano aprirsi due strade. Proporsi come forza dell’alternativa e quindi, approfittando dello sbandamento del campo nemico, accelerare per prendere al più presto l’eredità del governo. Oppure, questa è la seconda alternativa, giocare a tutto campo come un partito-sistema che non si limita a prospettare un immediato ricambio di governo ma si preoccupa di definire i nuovi equilibri sistemici con coalizioni più ampie. Nella posizione di forza in cui oggettivamente si trova il Pd ha l’imbarazzo della scelta. È chiaro però che l’abbondanza delle alternative non dovrà porlo nella condizione dell’asino di Buridano.