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“Non c'è dubbio che salario e modello contrattuale siano i temi decisivi della prossima stagione contrattuale. Gettare la palla in tribuna perseguendo la via della moratoria dei contratti, più o meno mascherata, o addirittura di restituire, come pure ci è stato chiesto da Confindustria e Federchimica, salario contrattato, indebolisce il sistema delle relazioni industriali del nostro paese e porta fuori controllo la contrattazione”. Emilio Miceli, segretario generale Filctem Cgil ha a aperto con queste parole i lavori della prima giornata del seminario nazionale sulla contrattazione, promosso appunto dalla Filctem a Roma, al Centro congressi “Frentani”. Una due gionri per affrontare un tema di scottante attualità per il quale è in gioco quel “modello” contrattuale che è stato conosciuto e praticato in tutti questi anni, dal 1993 in poi.
“In ogni caso – ha aggiunto - il primo obiettivo della nostra organizzazione è rappresentato dalla difesa dei contratti nazionali e dei loro rinnovi. In questo senso abbiamo unitariamente deciso di predisporre da subito le piattaforme contrattuali per rendere chiara la nostra determinazione a rinnovare i contratti”. “Peraltro – ha continuato il leader Filctem - ad osservare da vicino la filosofia del Governo, sembra che ci si incammini sulla strada dell'accompagnamento della regressione, del downgrading del paese attraverso una nuova austerità dei diritti, delle opportunità, della valorizzazione professionale, dell'innovazione: in una parola, delle stesse ambizioni dell'Italia”.
“Bisognerà giocare a carte scoperte – ha proseguito - perchè non possiamo accettare un modello contrattuale che costruisca una nuova geografia con al centro il contratto aziendale, magari sostenuto dai minimi fissati per legge, e - in forma sussidiaria – un contratto collettivo nazionale che ingloba chi non è in grado di farsi il contratto aziendale perchè non ce la fa: è un modello che porterebbe a riaprire il conflitto. Al contrario occorre mantenere un modello nel quale nel primo livello si normano minimi salariali e diritti generali, universali: il secondo livello deve avere piena titolarità nel campo dell'organizzazione della prestazione lavorativa e, dunque, della produttività aziendale”.
“In tutti i casi – ricorda ancora Miceli - resta sul tappeto, di fronte all'esaurimento dell'accordo del 2009, il “come” regolare gli aumenti retributivi, sapendo che, in una fase di deflazione, quell'accordo non risponde più ad alcun criterio, né di politica economica né tantomeno di salvaguardia del potere di acquisto dei lavoratori. Noi però sappiamo che l'inflazione non è, né può essere l'unico elemento di contabilizzazione. Tuttavia tutte che le stime degli istituti che fanno previsioni sono prudenti in periodo di lotta all'inflazione ed ottimisti in fase di deflazione: sarebbe questo un colpo mortale per il contratto di lavoro, e noi non lo vogliamo.
Che fare allora, si è chiesto Miceli? “Vorrei tornare per un attimo all'intesa del luglio 1993, vero e proprio accordo sulla politica dei redditi. In quel testo – ricorda Miceli – il riferimento è agli andamenti economici di settore, che trovo ancora oggi realistici, perchè insieme al dato dell'inflazione, affronta direttamente il tema degli andamenti specifici di settore, coniugando il governo degli indicatori macroeconomici dell'economia appunto con la congiuntura di settore: insomma obiettivi industriali, di mercato, di competitività utili a ragionare sugli aumenti salariali”.
“Insomma, al di là degli obiettivi Bce e al riferimento al Pil, su quest'ultimo non so se sia la soluzione più giusta, penso che sia ragionevolmente necessario costruire una richiesta salariale che abbia solidi riferimenti al costo della vita e alle ragioni di settore. E non credo, su questo voglio essere esplicito, si possa ripiegare sulla produttività di settore perchè non è in grado di offrire un quadro preciso degli andamenti economici, né tantomeno rendere disponibili i minimi per la contrattazione di secondo livello”.
“Piuttosto dobbiamo interrogarci per tempo sulla evoluzione del modello di “governance” e di organizzazione dei grandi gruppi nazionali – il riferimento per Miceli è alla grande conglomerata su scala globale con presenza estesa nei mercati internazionali – , un terreno tutto da esplorare perchè avvertiamo la necessità di rispondere alle esigenze non solo dell'impresa, con maggiore autonomia dal contratto nazionale, ma di migliaia di lavoratori soggetti a mobilità, che seguono direttrici verticali di business, che svolgono funzioni globali”.
Quanto alla riforma del lavoro. “Nessuno può stare tranquillo perchè soprattutto con i licenziamenti così come sono venuti fuori dal jobs act, le imprese sanno che il contenzioso sarà alto. Difficile sostenere che l'uguaglianza di fronte alla legge di due lavoratori si possa sostanziare in procedure, alla fine opposte, tra diritto al reintegro e sua negazione. Peraltro dovremo supplire, con gli strumenti della contrattazione, al venir meno di pezzi importanti dello Statuto dei lavoratori, e non sarà una passeggiata per nessuno, tantomeno per noi! Di certo – ammonisce il leader sindacale - non ci renderemo disponibili a ricopiare la riforma del lavoro dentro i contratti perchè noi non scriviamo sotto dettatura”.
Infine sulla ventilata ipotesi di referendum abrogativo del jobs act, Miceli è rimasto fondamentalmente freddo, “perchè non solo acuirebbe – ha concluso – il dibattito dentro il mondo del lavoro dipendente ma penso unificherebbe quello del lavoro autonomo. Ma poi il possibile mancato raggiungimento del quorum o – peggio - la sconfitta, certificherebbe definitivamente il jobs-act. E questo non possiamo permettercelo”.