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La scorsa settimana Intesa Sanpaolo è risultata l’azienda più pubblicizzata nei media per il video della filiale di Castiglione delle Stiviere, video realizzato in un contest interno condiviso poi sui social, ricevendo milioni di visualizzazioni e commenti di una ferocia spietata. A causa dell’involontario successo del video sono fioccate analisi, commenti, satira; è stata occasione per qualche mente di prendersela di nuovo con il sindacato; si sono espressi politologi, giornalisti, sociologi, “strizzacervelli”. È il potere del web.
Si potrebbero dire molte cose, aggiungere ancora dei commenti. Si potrebbe dire, per esempio, che l’azienda è la grande assente dal dibattito, che non si è stigmatizzata la responsabilità di Intesa Sanpaolo nel promuovere su base “volontaria obbligatoria” la realizzazione di video motivazionali. Una ricerca della Fisac Cgil di Pisa dice che i bancari sono tra i maggiori consumatori di psicofarmaci per lo stress delle pressioni commerciali. Invece no, nei video aziendali sono felici, sorridenti e ci mettono il cuore.
Si potrebbe dire che c’è stata una grande superficialità in chi ha promosso il contest e gestito, o meglio non gestito, la circolazione dei video. Oggi non ci sono più i vecchi Vhf, è molto facile che un video interno venga condiviso sui social, caricato su YouTube. Esiste un manager profumatamente pagato per la sua competenza, un responsabile della comunicazione in Intesa Sanpaolo?
Si potrebbe dire che gli ambienti di lavoro sono diventati così alienanti, così competitivi, così condizionanti da indurre lavoratrici e lavoratori a dimenticare che esiste una dignità personale da rispettare, anche nel lavoro subordinato. La banca non è una grande famiglia, è un datore di lavoro a cui viene prestata la nostra opera e, in cambio, si riceve una retribuzione.
A tutto quel che si è detto si deve aggiungere che in questa brutta vicenda esiste anche un problema di genere. Quello della direttrice della filiale non è irrilevante. Il cyber bullismo che si è scatenato nei commenti ha aggiunto a insulti di efferata crudeltà i soliti pesanti apprezzamenti sull’aspetto fisico, la voce, la presunta moralità della direttrice. Se fosse stato un direttore l’ideatore della sceneggiata sarebbe stato giudicato per il suo aspetto fisico?
Il problema non sono i social, ma la sottocultura sessista, a cui i social stessi danno voce, una voce tanto più violenta quanto più è facile nascondersi dietro una tastiera. Non sta a noi giudicare Katia, se poteva o non poteva sottrarsi a quanto “chiedeva” l’azienda, e cosa doveva fare nel suo video. Certo lei non immaginava di finire alla gogna per responsabilità di quell’azienda che ipocritamente vuole mostrare un’immagine irreale e melensa dei propri ambienti di lavoro. Ne uccide più un clic che la lama di una spada.