PHOTO
“La strage va fermata e la denuncia non basta più. Metteremo in campo un programma di ulteriori mobilitazioni, perché siamo molto preoccupati per l’inversione di tendenza degli infortuni mortali sul lavoro. Solo nell’ultimo mese più di cento nuovi decessi. In sostanza, nel 2018 si continua a morire come avveniva un secolo fa. Se penso che in occasione del Primo maggio abbiamo reso omaggio al cimitero di Mercogliano, in provincia di Carrara, alle otto vittime di un incidente nella cava dei Bettogli del 1911, sembra di essere tornati a quell’epoca”. Così il segretario confederale Cgil Franco Martini, oggi ai microfoni di RadioArticolo1.
“Apparentemente, i morti sul lavoro sono tornati a crescere con la ripresa produttiva: in sostanza, si lavora di più e, di conseguenza, ci s’infortuna di più. Ma non è così, perché bisogna interrogarsi sulla qualità della ripresa. Il sospetto è che si trascinano vecchi modelli produttivi che abbiamo alle spalle, vecchie contraddizioni insite nell’organizzazione del lavoro e questo contraddice tutte le chiacchiere di questi mesi a proposito d’innovazione, di competizione alta e così via”, ha spiegato il dirigente sindacale.
Per Martini “è fondamentale porre l’attenzione al fatto che nel corso degli anni sono cambiati i paradigmi del mondo del lavoro e della struttura d’impresa che conoscevamo. Nell’ultimo periodo il luogo fisico del lavoro si è andato sempre più smaterializzando: ad esempio, pensiamo ai ciclisti di Foodora. È del tutto evidente che se destrutturiamo il lavoro e l’impresa, i fattori di rischio si moltiplicano e contemporaneamente se ne aggiungono di nuovi, che derivano dalle nuove attività lavorative, di cui non conosciamo a fondo tutte le problematiche”. Ragion per cui, ha aggiunto, “esiste un rapporto diretto fra qualità del lavoro e salute e sicurezza delle persone e del modo in cui si lavora: tanto più si opera in maniera destrutturata con una restrizione di diritti e tutele, tanto più aumenta il rischio, e il risultato è sotto gli occhi di tutti. D’altronde, abbiamo il Jobs Act che incentiva le tipologie contrattuali di breve termine. Allora, perché mai un’impresa dovrebbe spendere risorse per formare un lavoratore, anche alla sicurezza, se quello stesso lavoratore ha un’attività di breve durata e viene poi sostituito?”.
“È del tutto evidente che c’è un rapporto diretto fra il dumping contrattuale, cioè la tendenza a stipulare contratti diversi da quelli del settore d’appartenenza, e il fenomeno infortunistico. Le imprese tentano in ogni modo di spendere meno di quanto previsto dai ccnl siglati assieme alle organizzazioni sindacali e datoriali e alla fine, oltre al salario, si riducono anche i costi legati alla sicurezza. Bisogna frenare questo cancro della contrattazione e c’è un solo modo per farlo, quello di approvare finalmente una norma che certifichi la rappresentatività degli attori negoziali. Non c’è altra soluzione”, ha continuato il sindacalista.
“Inoltre, i controlli sono troppo pochi e prevedibili per essere efficaci, mancano uomini e mezzi e le risorse sono contingentate, come ha denunciato ultimamente lo stesso Ispettorato nazionale del lavoro, ma anche sul piano della prevenzione c’è poca consapevolezza sui doveri e le responsabilità delle Regioni. È dimostrato che i paesi più competitivi e con le migliori performance economiche sono quelli che hanno un livello più alto di salute dei cittadini e dei lavoratori stessi. Questo poiché salute e sicurezza non sono un costo, ma producono ricchezza; e allora, se dei tre pilastri su cui si fonda la riforma sanitaria di cui si celebra oggi il quarantennale – prevenzione, cura e riabilitazione – si toglie l’investimento sulla prevenzione, è chiaro che poi occorre spendere di più per indennizzare il danno e questo alla fine costa di più allo Stato. È un circolo vizioso che va interrotto, facendo una scelta strategica: investire sulla salute dei cittadini, perché a sua volta ingenera un benessere economico a tutto il paese”, ha precisato l’esponente Cgil.
“Insomma, le imprese devono aumentare la produttività, ma nello stesso tempo rinunciare all’illusione di agganciare la ripresa alla vecchia maniera, aumentando l’orario e i carichi di lavoro. È dimostrato che le economie più competitive sono quelle che investono sulla qualità del lavoro, sullo sviluppo 4.0, sui processi organizzativi del lavoro, sugli strumenti della conoscenza, sulla formazione, per rendere il lavoro un fattore dinamico dell’impresa. Al contrario, proprio analizzando gli infortuni del 2018, scopriamo che tutto ciò è proprio quello che manca all’Italia, perché si continua a morire soprattutto nelle ditte in appalto, la più grande fabbrica degli infortuni, che non rispettano norme, che ripetono procedure lavorative obsolete e a rischio, che fanno lavorare troppo e male i propri addetti, credendo così di aumentare la produttività e invece provocano danni ancora maggiori alla stessa impresa. Ci vuole soprattutto una svolta culturale e le associazioni di rappresentanza delle imprese dovrebbero avere più coraggio nel denunciare queste cose”, ha aggiunto il segretario confederale.
“E anche il sindacato deve recuperare una sensibilità che nel corso degli anni della crisi si è un po’ attenuata. Di fronte ad imprese che chiudono, la tendenza è difendere i posti di lavoro e la produzione, ma questo può portare ad accettare qualsiasi condizione. Noi dobbiamo ribaltare tale approccio, sapendo che la lotta per la sicurezza non è una battaglia settoriale, che la salute dei lavoratori è un terreno interdisciplinare. A tale proposito, come Cgil, abbiamo messo in campo la Carta dei diritti, dove c’è dentro tutta l’essenza di un recupero del valore del lavoro e della persona, mentre con Cisl e Uil abbiamo preparato una piattaforma unitaria con tutti gli Rls, che va messa in pratica al più presto”, ha rilevato ancora Martini.