PHOTO
La recente affermazione del presidente del Consiglio italiano di voler assumere la Germania come modello in materia di politiche del lavoro e dell’occupazione, va accettata per lo meno con il beneficio d’inventario. E non solo per le differenze storiche fra i due paesi o il diverso contesto dell’organizzazione statuale e il dissimile ruolo delle rispettive parti sociali – basti solo pensare alla “codeterminazione” tedesca. Ma soprattutto per le “narrazioni”, riferite soprattutto all’estero, che ne celebrano il successo, riguardanti le riforme del mercato del lavoro tedesco – che anche la Francia vorrebbe copiare – introdotte negli anni tra il 2002 e il 2005 e che rappresentarono una cesura rispetto al passato: le cosiddette riforme Hartz o, dette altrimenti, Agenda 2010. Che indubbiamente produssero in Germania mutamenti di grande portata nell’ordinamento del mercato del lavoro, delle garanzie sociali contro la disoccupazione e nel sistema del collocamento, con la creazione di una nuova Agenzia federale del Lavoro.
L’introduzione poi di un reddito garantito di base (“Grundsicherung”) per chi cerca lavoro, frutto dell’unificazione del sussidio di disoccupazione (quello che in genere si percepiva dopo 12 mesi da disoccupati) e dell’assistenza sociale al di fuori del sistema assicurativo tradizionale contro la mancanza d’impiego, ha contribuito fortemente a cementare una tendenza già in atto costituita da un’esplicita “dualizzazione” dello stesso mercato del lavoro, spaccato tra insider – il nucleo “duro” del sistema produttivo, tutelati, ma in diminuzione più o meno accentuata – e outsider – precari di varia natura, collocati ai margini dello stesso mercato in quasi perenne vagabondare tra occupazione insicura e “Grundsicherung” o in un mix di entrambe.
Per questo è bene dare uno sguardo dietro la facciata. È indubbio che dopo l’introduzione delle riforme si sia verificata un’inversione di tendenza del mercato del lavoro tedesco. È probabilmente questa coincidenza temporale che induce a considerare le riforme come la causa di tale capovolgimento e a rifiutare, con l’indicazione dei loro presunti effetti positivi sull’occupazione, le critiche nei confronti delle concomitanti conseguenze negative.
In realtà – come sottolineano i ricercatori dell’istituto Wsi – l’evidenza dell’efficacia di tali innovazioni è piuttosto debole. La diminuzione della disoccupazione in presenza di una crescita economica moderata va ricondotta soprattutto all’assottigliamento delle riserve della forza lavoro, al rallentamento dello sviluppo produttivo e alla distribuzione del volume del lavoro su più soggetti.
Guardiamo i numeri. È vero che la quota degli attivi in Germania ha raggiunto un nuovo record, superando i 42 milioni (2014), il livello più alto dalla riunificazione. Del resto, che il mercato del lavoro tedesco da tempo abbia sperimentato una crescita fulminea lo indica un confronto con il 2005. Nel primo anno della riforma Hartz-IV i disoccupati ufficiali ammontavano a 4,9 milioni, la cifra più alta dal 1949.
Contemporaneamente, gli occupati regolari erano scesi a 26,18 milioni. I dati a confronto per il 2014 (agosto) parlano di 29,4 milioni di occupati regolari e di 2,9 milioni di senza lavoro (6,7 per cento). E tuttavia – osservando l’exploit da un altro punto di vista – i milioni di persone occupate in più hanno contribuito in misura minimale alla crescita della domanda interna. Cosa che rappresenta il rovescio della medaglia delle riforme del mercato del lavoro. Sono i rapporti di lavoro atipici che si allargano sempre più, almeno fino al 2009.
Da allora, il loro numero ristagna sui 7,8 milioni. Nel 2002 gli occupati a tempo pieno rappresentavano il 71 per cento di tutti i lavoratori, ora siamo al 66. Gli stessi salari reali sono pressoché fermi al 2005. Solo nel 2012 e 2013 si è verificata una leggera crescita. Chi inoltre volesse affermare che adesso c’è più lavoro di prima, incorrerebbe in un abbaglio. È vero proprio il contrario. Se gli occupati nel 1991 hanno lavorato complessivamente all’incirca per 52 miliardi di ore, l’anno scorso le ore di lavoro sono state solo 49 miliardi. Lo segnala l’Istituto di ricerca del mercato del lavoro e delle professioni (Iab).
La spiegazione: oggi molti più lavoratori hanno un’occupazione part time o un mini job. Dopo la riunificazione, gli occupati part time erano poco meno del 16 per cento, oggi sono quasi il 35 (12,7 milioni), sottolinea ancora lo Iab. Una donna su due, mentre tra gli uomini la quota è salita al 18 per cento. Per molti la scelta è stata più o meno volontaria, ma molti altri vorrebbero volentieri lavorare più a lungo, per guadagnare di più. Già nel febbraio 1999, l’allora cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, poco dopo l’assunzione della carica, aveva espresso la necessità di creare un settore caratterizzato da bassi salari per quelle persone che al momento percepivano sussidi sociali, in modo da reinserirli nel mercato del lavoro.
Se l’intenzione poteva essere lodevole, il risultato lo è stato molto meno: oggi la Germania presenta uno dei settori a bassi salari più esteso d’Europa. Ma contemporaneamente – si osserva – la disoccupazione più ridotta, se confrontata con gli altri paesi europei. Sarebbe dunque questo il prezzo da pagare per spingere i disoccupati ad accettare lavori poco pagati e spesso al di sotto delle loro qualifiche? Ovviamente no, rispondono da tempo ricercatori e scienziati sociali vicini ai sindacati. E non sono i soli. Dello stesso avviso l’istituto di ricerca dell’Agenzia federale del lavoro, che non può certo definirsi una succursale della sinistra, che in un suo studio ha accertato che un ampio settore contraddistinto da bassi salari non è necessario per una cospicua quota occupazionale.
In Europa ci sono Paesi – vedi Danimarca e Svezia, almeno per il recente passato – che presentano una quota occupazionale elevata e relativamente pochi percettori di bassi salari. Ogni paese – è la conclusione dello studio – può decidere in proprio quale sia la migliore strategia per creare lavoro. Certo la crescita è importante, ma anche le politiche del lavoro possono contribuire a ridurre il gap retributivo. Il salario minimo che partirà il prossimo anno va, almeno in parte, in questa direzione.