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“Il Mezzogiorno? Se ne parla sempre meno. E questo nel momento in cui, pensando allo sviluppo del paese, affrontarne i problemi di fondo diventa più che mai decisivo”. Carlo Trigilia, docente all’università di Firenze e presidente della Fondazione Res, dedica da sempre tanta parte della sua attività di ricerca alla questione meridionale – locuzione che può sembrare fuori moda ma che resta più di ogni altra utile a definire un nodo che centocinquant’anni dopo l’unità rimane ancora irrisolto –. Il suo Sviluppo senza autonomia, uscito nel ’92 presso Il Mulino, fece molto discutere per la presa di distanza dalla lettura all'epoca più diffusa sulle ragioni del ritardo meridionale. Ragioni individuate, più che nella carenza di capitali, competenze e infrastrutture, nelle modalità degli interventi per lo sviluppo sino ad allora realizzati e nei loro effetti negativi; in altre parole: nelle responsabilità della politica.
Una problematica che ritorna oggi in Non c’è Nord senza Sud – sottotitolo: “Perché la crescita dell’Italia si decide nel Mezzogiorno”, sempre per il Mulino –, testo in cui, di nuovo sotto accusa la politica (locale e centrale), non c’è più – bruciate le attese degli anni 90 – la fiducia espressa nel primo lavoro circa una possibile “responsabilizzazione delle classi dirigenti locali”.
Un quadro non proprio ottimistico, dunque, che però non impedisce all’autore di ritornare sul nesso che lega i destini del paese a quelli del Mezzogiorno e di affermare, appunto, che non c’è Nord senza Sud. Una formula che può apparire scontata ma scontata non è. Lo sanno bene le forze – poche per la verità, tra queste la Cgil – impegnate nel ventennio berlusconiano (e leghista) a combattere i molti veleni sparsi contro il meridione, e che attualmente – in un clima apparentemente meno astioso – devono comunque scontare il cono d’ombra in cui sono finiti i temi di fondo del problema meridionale.
“Eppure – avverte Trigilia in avvio di conversazione – il problema oggi è ancora più stringente. Il Mezzogiorno resta, così come fu per il meridionalismo classico, una grande questione nazionale. La globalizzazione da un lato, l’integrazione europea dall’altro, ci dicono che un Sud assistito non è più sostenibile. Riprendere il cammino dello sviluppo non si può, dunque, se non torniamo ad affrontare il problema meridionale”.
Rassegna In quale direzione muoversi?
Trigilia Le direzioni sono due. La prima è quella dei trasferimenti di risorse. Durante gli ultimi sessant’anni i trasferimenti netti dal centro alle regioni del Mezzogiorno sono stati stimati dalla Banca d’Italia tra un quinto e un sesto del Pil meridionale. Negli ultimi anni siamo a circa 60 miliardi annui: un importo che è poco meno del costo del debito in un anno, destinato essenzialmente alla spesa ordinaria, ovvero sanità, istruzione e formazione, assistenza – intorno al 5 per cento, quindi molto ridotta, è la parte indirizzata verso le politiche per lo sviluppo –. Tutto questo naturalmente non deve spaventare: un grande paese può e deve mettere in conto l’esigenza di aiutare le aree più deboli. Cos’è che non va? Il fatto che le regioni destinatarie di questi trasferimenti sono poi incapaci di pagarseli, almeno parzialmente, attraverso uno sviluppo sostenibile.
Rassegna Un regime di assistenza.
Trigilia Un regime di assistenza. Ed è un problema molto serio, perché con la globalizzazione economica e l’integrazione europea, ripeto, non ce lo possiamo permettere. Il problema, allora, è il passaggio da una integrazione assistenziale dei territori del Sud a una integrazione di tipo completamento diverso. Ma su questo non mi pare ci sia grande consapevolezza. Del Mezzogiorno si parla ormai solo quando ci sono le emergenze, quando scoppiano i casi Ilva o Alcoa. Non più, ripeto, come di una grande questione nazionale. Un paradosso. Perché la soluzione del problema è decisiva per le sorti dell’intero paese; oggi, torno a dire, in maniera più stringente di un tempo. Senza dimenticare che, se non si cambia strada, corriamo il rischio di un adattamento all’economia criminale.
Rassegna Che fare?
Trigilia Bisogna innanzitutto capire cosa non ha funzionato. La diagnosi tradizionale batte sempre sull’insufficienza degli aiuti. È una diagnosi che non condivido, che bisognerebbe avere il coraggio di capovolgere. Il problema che noi abbiamo di fronte non è primariamente un problema economico, di difetto delle risorse erogate. Il problema è che noi abbiamo avuto una spesa senza vincoli né controlli, con il risultato di rafforzare le reti clientelari e l’autoreferenzialità della politica. Il tema da mettere a fuoco, allora, è costituito dall’infrastruttura socio culturale, dalla qualità delle relazioni sociali, da una politica legata essenzialmente alla riproduzione del consenso. Prima dell’acqua, mi si passi la metafora, è necessario mettere mano all’impianto di distribuzione, alla rete idrica, altrimenti abbiamo come minimo un mare di falle e un grande spreco.
Rassegna Come del resto accade non solo metaforicamente. La questione decisiva, dunque, è la qualità del governo locale, del ceto politico. Ma questo benedetto ceto politico, di livello così tragicamente mediocre – quando va bene, quando non è colluso con le cosche di turno – è poi pur sempre il prodotto di una società malmessa.
Trigilia Il funzionamento della politica al Sud è condizionato dalla cattiva qualità delle relazioni, dalla tradizionale debolezza della cultura civica. Ma non è solo un problema alla Putnam. Il punto decisivo è che il funzionamento stesso della politica ha accentuato, dilatato, i difetti tipici della società meridionale, distruggendo così capitale sociale e agendo come un vero e proprio freno allo sviluppo. Vale però la pena ricordare che tutto questo è avvenuto con la responsabilità dei governi centrali, che hanno trasferito risorse senza porre vincoli. Il Mezzogiorno è stato da un lato mercato di sbocco per le imprese del centro-nord, dall’altro serbatoio di consenso: un esercito elettorale di riserva.
Rassegna Qual è la soluzione?
Trigilia Il governo centrale deve bloccare questo scambio perverso, introdurre controlli, vincoli e sanzioni sui trasferimenti. Dare il via, in questo campo, a una vera e propria spending review. Detto in altri termini, bisogna porre fine all’illusione autonomistica, all’idea che dare più potere agli enti locali e regionali sia sinonimo di crescita. Bisogna prendere di petto questa autonomia senza responsabilità e sottoporla a vincoli e sanzioni. Oggi, a pagare, a subire dette sanzioni, in termini di imposizione fiscale e tagli ai servizi, sono come ben sappiamo i cittadini. Per interrompere lo scambio perverso, invece, occorre sanzionare gli amministratori. Sotto il profilo economico si tratta di un intervento a costo zero.
Rassegna Ma i costi politici…
Trigilia I costi politici, certo, possono essere elevati. Penso tuttavia che per un governo di tecnici le difficoltà dovrebbero essere minori.
Rassegna Anche se l’esecutivo attuale ne avesse l’intenzione, i tempi sarebbero un po’ stretti, non crede?
Trigilia Sì, ma una spending review sui trasferimenti e una disincentivazione di comportamenti negativi potrebbe essere avviata. Le stesse forze politiche nazionali, pensando proprio alle difficoltà del dopo, non credo farebbero molte obiezioni. Colpire l’autonomia senza responsabilità dei governi locali resta in ogni caso decisivo. L’altro grande problema è evitare che il nodo dello sviluppo si riduca alla questione dei fondi europei. Il tema non è solo il loro utilizzo, che pure non è questione da poco. La portata del problema, del problema sviluppo, è così grossa che davvero non la si può confinare nel recinto di un miglior utilizzo delle risorse che vengono dall’Europa.
Rassegna Su cosa puntare, allora?
Trigilia La questione è come sostenere interventi per la crescita che siano anche poco costosi. Noi abbiamo alcune opportunità: i beni culturali e ambientali, l’agricoltura, le competenze scientifiche fornite dall’università pubblica; risorse che possono essere utilizzate per fare impresa e soddisfare una domanda di qualità. La strada da percorrere, allora, è l’avvio di politiche vòlte alla costruzione di beni e servizi collettivi, capaci di valorizzare e promuovere le risorse del Sud. Mi è capitato già in altre occasioni di fare l’esempio di Siracusa e Ravenna. Le due città hanno una dotazione di beni culturali e ambientali relativamente simile. Ravenna, però, riesce a sviluppare, ad attivare le proprie risorse producendo reddito e occupazione in una misura ben più sostanziosa di Siracusa.
Rassegna Cos’è che fa la differenza?
Trigilia A Ravenna la classe politica locale ha una visione strategica; pubblico e privato riescono perciò a lavorare insieme, a valorizzare l’offerta di cui la città dispone. L’esperienza passata, gli incentivi, gli aiuti alle singole imprese non hanno cambiato il quadro. Le elite locali, nel Sud, insistono su questa strada. Ci vorrebbe al contrario un grande progetto per le città capace di produrre beni collettivi, servizi adeguati a uno sviluppo in grado di autosostenersi.
Rassegna Non era la filosofia della programmazione negoziata, così come fu concepita a metà degli anni Novanta?
Trigilia Ma non c'è stata selezione e si è finiti nel calderone dell’autonomia senza responsabilità. Il problema è un ritorno ragionevole al centro, capace di stimolare le classi dirigenti locali, dico ancora una volta, a offrire beni collettivi. Beni che poi aiutano a fare impresa. C’è però una riflessione che vorrei aggiungere. Accennavo alle politiche locali, e al loro possibile carattere. Ma non basta. Le buone politiche non possono sostituirsi alla politica, non si fanno senza la politica. E questo è un grande buco nero. Noi abbiamo bisogno di una selezione. La società civile più responsabile dovrebbe chiedersi: come funzionano i partiti? Da questo punto di vista mi ha molto colpito il discorso del presidente Napolitano a Mestre. Negli altri paesi europei i partiti – che pure non sono più i grandi partiti del Novecento – continuano a funzionare come strutture di selezione di una classe dirigente decente.
Rassegna Da noi…
Trigilia Da noi? Beh, la prognosi resta riservata.