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Ho raccontato negli ultimi anni molte morti sul lavoro. La morte non è mai accettabile, ma morire per mille euro al mese facendo lavori di merda lo è ancora meno. Non so quanti italiani sarebbero oggi disposti a pulire le stive delle navi, quanti spennare galline, accudire bestiame nelle stalle o raccogliere pomodori per quindici euro al giorno, dopo dodici ore sotto il sole cocente a spellarsi le mani, non so quanti altri farebbero a nero i muratori per quattro soldi a giornata sopra impalcature di fortuna, senza neanche sapere cosa stanno costruendo e se esistono davvero come lavoratori. Ne ho raccontate tante, ho sentito le voci vibranti ancora di dolore, le vedove straziate dei morti per inalazione d’amianto di Monfalcone con le lacrime agli occhi, come mater dolorose, in tinelli semplici di case operaie, alcune delle quali mi hanno insegnato che l’odio non serve, ma solo la ricerca della giustizia è cosa civile in questo mondo e in questa vita che tutti stiamo vivendo. Anche se i processi sono infiniti, e allungano la pena che attanaglia i corpi come incubi a ogni risveglio, e alimentano la rabbia.
Ho visto centinaia di volte nella mia vita entrando dal giornalaio la locandina con gli strilloni impietosi: operaio fulminato dai fili dell’alta tensione, lavoratore barbaramente schiacciato da una pressa, manovale fatalmente cade dall’impalcatura. Fatalmente, pensa un po’. Ho raccontato la morte di un ragazzo delle mie parti, Andrea Gagliardoni, ucciso da una macchina tampografica all’Asoplast di Ortezzano, in quella piccola impresa tanto osannata come modello di sviluppo in certi anni, motore dell’economia, dove gli incidenti sono tantissimi e il più delle volte senza colpevoli. Ho raccontato la storia di Anna Maria Mercadante, 49 anni, e Giovanna Curcio di 15, a Montesano della Marcellana, nella coda della Campania più impervia e abbandonata. Ventiquattro euro per dodici ore continue di manodopera a nero la paga giornaliera nella fabbrichetta abusiva Bimaltex, asfissiate mentre cercavano di salvarsi chiudendosi in uno squallido bagnetto, e ho provato un senso d’orrore immaginando il contorcimento straziato dei corpi abbracciati uno sull’altro. Non voglio raccontarle più, ogni volta che torno da queste ricognizioni e debbo scrivere sento l’impotenza del testimone di seconda mano, di chi cerca di ricostruire una storia che è sempre la stessa, e quelle dolorose degli altri mi entrano nel corpo e non se ne vanno più. Mi tormentano, tornano come fantasmi a farmi visita nella vita onirica. Sono storie di una Spoon river italiana dove il bisogno di fare e guadagnarti i pochi soldi per campare può spingerti a volte nelle mani di un aguzzino, un caporale senza scrupoli che ti accompagna la mattina al lavoro e fa la cresta sul tuo misero salario, o di un padrone spietato che se ne frega altamente delle regole di civiltà in un paese tra i più industrializzati e ricchi dell’occidente come il nostro; e in nome del profitto, perché di questo si tratta, deregolamenterebbe persino il rispetto della vita.
Continuano a morirne ogni giorno come mosche, non si fa a tempo a contarli. Sono le ultime vittime di una serie che sembra infinita. Posso citarli a memoria e a caso per quanti sono, basta cercare in Internet, la rete li ha censiti in ogni dove, infatti se scrivi sul motore di ricerca morti sul lavoro li trovi tutti: a Firenze due operai il 29 maggio dell’anno scorso, lungo l’A1 dell’Autostrada del Sole in uno dei tanti cantieri estivi all’aperto, schiacciati da un tir che ha travolto il loro furgone, il 5 giugno a Grosseto, un tunisino cade da un ponteggio, il 20 a Roma Fiumicino muore Carlo Merola, 24 anni, nello stesso giorno a Quartucciu (Cagliari) Fabio Simula viene schiacciato da un semirimorchio a bordo di una nave merci, per non dire delle ultime terribili tragedie di Torino e Molfetta. Ricordano i personaggi della piccola America di fine ottocento cantati da Edgar Lee Masters. “Butch Weldy che saltò in aria mentre la cisterna esplodeva nella fabbrica di scatolame” e ricadde “con le gambe spezzate e gli occhi bruciati come uova fritte”, o Mickey M’Grew che per pagarsi la scuola finì operaio giornaliero e morì mentre puliva la torre dell’acqua. Per non parlare di Herman Altman,“arso nella miniera”. Sono 1.500 l’anno in Italia le morti accertate, per non dire di quelli uccisi dalla lupara bianca, i polacchi del Foggiano scomparsi nel nulla nella campagne irraggiungibili, picchiati a sangue, bruciati vivi, sfruttati come bestie. Gli africani che lavorano in edilizia, buttati nelle discariche come rifiuti umani.
No, non voglio raccontarle più queste storie, penso mentre sto raggiungendo Ravenna, dove il 13 marzo del 1987 si consumò la più grande tragedia operaia del dopoguerra. I cartelli stradali sono a dir poco ingannevoli, girare per le vie della città e perdersi è una cosa normale, le rotonde ti sviano, non trovi mai la strada maestra. In centro, poi, è quasi impossibile orizzontarsi, chissà quale mente perversa ha pensato in un modo così assurdo la viabilità. Qui morirono asfissiati dalle esalazioni di acido cianidrico tredici operai nei cantieri navali Mecnavi, di proprietà dei fratelli Arienti (che ancora operano indisturbati a Termoli, solo sfiorati dai processi) e dentro le stive della nave Elisabetta Montanari di Trieste, una petroliera in secca, adibita al trasporto di gpl (gas di petrolio liquefatto): Filippo Argnani, quarant’anni, Marcello Cacciatore, ventitrè anni, Alessandro Centioni, ventuno anni, Gianni Cortini, diciannove anni, Massimo Foschi, di ventisei, Marco Gaudenti, diciotto anni, Domenico La Polla, venticinque anni, Mohamed Mosad ne aveva solo trentasei, il povero Vincenzo Padua, sessant’anni, che stava per andare in pensione, e si trovò lì per puro caso, chiamato all’ultimo momento in mancanza di personale, per uno scherzo del destino, ed era l’unico veramente in regola assunto dalla Mecnavi; Onofrio Piegari, ventinove anni, Massimo Romeo, venti-quattro, Antonio Sansovini, ventinove anni, e infine Paolo Seconi anche lui di ventiquattro. Tredici lavoratori morti come topi, come tredici era il giorno di quel mese, tutti asfissiati nel ventre della balena metallica, uno shock incredibile in una città fortemente sindacalizzata e civile dove la Cgil ha migliaia di iscritti e la sinistra governa da sempre.
Superando in macchina la via con l’insegna di quel numero maledetto che vuole ricordare quel giorno, fa una certa impressione arrivarci. Di Ravenna sapevo altre cose, tutte a dir poco edificanti, conoscevo la città d’arte e i mosaici, la tomba di Dante, visitata insieme alle mie figlie, ma poco o niente di questa marina lontana che vedi alla fine di una grande pianura dove le auto parcheggiate hanno le targhe di molti paesi, come gli operai che lavorano qua dentro, quasi tutti stranieri o del Sud dell’Italia, tanto che a osservarlo da vicino sembra il parcheggio di un aeroporto internazionale. Di questa brutta storia però c’è un libro importante, scritto con passione civile da Rudi Ghedini, Nel buio di una nave (Bradipolibri, 2007), dal quale non si può prescindere, scatola nera di una delle pagine più terribili di storia italiana, libro indispensabile per capire quello che è successo, una ricerca sul campo che poi ha originato anche un documentario di rara forza espressiva. “L’esercizio della memoria è difficile” scrive l’autore, “in una società che tende a dimenticare e ad assecondare il fatalismo. In questa tragedia non c’è niente di fatale, ci sono varie colpe penali e politiche, nel senso più vasto del termine. È una cicatrice sulla storia di Ravenna, una pagina emblematica della recente storia italiana, un passaggio traumatico per tanti come il sottoscritto, più o meno coetaneo delle vittime più giovani”.
L’ingegner Giulio Sartoris, nomen omen, in quanto il cognome somiglia a quello di un sottomarino, ci aspetta puntuale nella sede del cantiere Naviravenna. È un uomo sempre molto contratto nel corpo, rigido nel parlare e nell’esporre, un ghigno sinistro al lato della bocca, forse perché è un po’ infastidito che di questa cosa ancora se ne parli, come se quel cantiere si portasse dietro una vecchia maledizione, però la disponibilità è massima, debbo ammettere. Non è il Presidente del Consiglio di Amministrazione che ti immagineresti in un vestito gessato doppio petto e la cravatta larga, a la moda, ma uno che è nato nei cantieri, e li attraversa ogni giorno, si sporca scarpe e mani, i jeans sono di marca buona ma consumati, parla con gli operai, e si vede pure che ci mette passione. Ma il suo fare disturbato resta, perché quando in un luogo di lavoro entra un occhio estraneo desta sempre un certo sospetto. Tanto che appena mi accomodo nel suo studio comincia a lamentarsi dei tanti controlli che lo tarmano. Anche lui c’era quel 13 marzo: “Tutti che facevano fotografie, gente che non sapeva neanche cosa fosse un bacino di drenaggio, veniva a farsi la pubblicità di fronte alla nave. Ho cercato anche di tirarne su uno, purtroppo non ci sono riuscito, l’acido cianidrico ti spacca le vene in testa…solo mettere il naso nel sopraportello ti veniva da svenire”. Mi dice con rammarico, quasi commosso, che alcuni erano riusciti ad arrivare a un metro dalla scaletta ma alla fine non ce l’hanno fatta. E ancora “guardi, la verità su quell’incidente lì non è mai saltata fuori. Ma in quel cantiere qualcosa doveva succedere. Era il periodo in cui si sentiva di più la concorrenza dei paesi slavi. Arienti aveva bisogno di gente e non aveva soldi”. Mi parla di fiamme ossidriche che lavoravano in assenza di uomini, lasciate sole, mi parla di cose assurde, e subito capisco che lui un’idea ce l’ha in testa ma alla fine non viene fuori. Sono solo ipotesi, supposizioni, congetture. Ma a quei tempi su 19 miliardi di fatturato complessivo annuo, il padrone dello stabilimento pensò bene di destinare solo 8 milioni per la sicurezza. Briciole. Questo è un dato certo, altro che chiacchiere. Minimo costo al massimo del rendimento, prezzi più bassi e tempi di consegna più rapidi, quella era la missione aziendale.
Rampante e spregiudicato, tanto quanto il conterraneo Raul Gardini, la cui fine è nota, in una intervista rilasciata un anno prima della tragedia, Enzo Arienti affermava con orgogliosa arroganza: “Nei miei cantieri il sindacato non è entrato. Ho sempre fatto trattative personali. La tutela? Sono convinto che chi vale, chi sa lavorare, sa tutelarsi da solo. Per la mia attività ho bisogno di gente elastica, disponibile a fare lo straordinario senza troppe storie. Paghiamo penali enormi per i ritardi delle consegne”. Nella cantieristica è così, le spese per la sicurezza sono una variabile non indifferente, come il sistema di organizzazione del lavoro, è questo che trucca il mercato. “E poi c’è il problema del caporalato, quello non è cambiato per niente”. “Io i caporali dei tempi della Mecnavi” dice con estrema franchezza Sartoris, uno che crede veramente nella legalità e nel libero mercato, “li vedo che girano ancora qui intorno”. Altra cosa agghiacciante è che mentre i cadaveri erano ancora caldi, invece di preoccuparsi di salvare loro la vita, come scriverà Luciano Pedrelli di Repubblica: “Una testimonianza sul macabro tentativo di coprire un giro di assunzioni fuorilegge è venuta ieri mattina da Elsa Seconi, la madre di Paolo, il giovane al primo giorno di lavoro rimasto asfissiato nella stiva della gasiera. La donna, intervistata da Uno Mattina, ha raccontato di aver ricevuto la visita di una impiegata della Nuova Oti di Forlì. ‘Signora, cerco il libretto di lavoro di suo figlio’ ha chiesto. Tutto questo accadeva venerdì mattina, alle undici, quando ancora il cadavere di Paolo doveva essere estratto dal ventre della nave. E la stessa operazione un secondo funzionario l’avrebbe tentata per altri tre suoi dipendenti (Gianni Cortini, Massimo Romeo, Marcello Cacciatori) uccisi dal fumo”.
I processi alla Mecnavi si chiusero quasi con un nulla di fatto, e alla fine ridotta la pena di un terzo per via del rito abbreviato, Enzo Arienti fu condannato a solo 4 mesi di reclusione, e gli altri fratelli ottennero la sospensione condizionale. Oggi però è tutto diverso, i sistemi di sicurezza sono tra i migliori del paese in questo stabilimento, “adesso siamo controllati come allo stadio, tutte le persone che entrano in cantiere sono identificate, e poi il lavoro navale è un lavoro molto difficile, particolare. Da 21 anni a questa parte gli incidenti che abbiamo avuto qui è chi è magari s’è rotto il dito, quello che è inciampato. Noi vorremmo rispettare tutto, ma qui come esce una legge sono già in cantiere a controllare”. Da quello che racconta Sartoris è una specie di persecuzione. Strana cosa in un paese dove i controlli sono quasi nulli. Forse quei tredici morti, almeno in questa città, sono serviti a qualcosa. Nella sala riunioni da una parte c’è lui che parla, e dall’altra il delegato sindacale, elmetto rosso in testa e tuta, faccia rugosa e barba bianca incolta, nelle tasche la radiotrasmittente, perché è vicino all’età pensionabile e adesso è addetto alla sicurezza, gira per gli stabilimenti guardingo affinché tutto funzioni. Dietro di loro, affisse alle pareti, foto di navi e la carta topografica del cantiere. Due uomini che stanno dentro la stessa storia di lavoro, però in conflitto da anni. So che gli scontri tra di loro non sono mancati, però si stimano. Giovanni Ruggiu è sardo, venne da queste parti per lavorare come trasfertista, poi mise radici e si fece qui una famiglia. “La situazione del porto oggi”, mi ha raccontato ieri davanti a un'ottima bottiglia di sangiovese Luigi Folegatti, il segretario generale della Camera del lavoro, qui con me anche stamattina, “è estremamente complessa. Siamo di fronte a una frantumazione del rapporto di lavoro, a una fortissima precarietà e a tantissimi operai che, provenendo da paesi stranieri, parlano lingue diverse tra loro. Si tratta di lavoratori arruolati per assolvere alla miriade di commesse determinate dalla proliferazione dei contratti di subappalto. Questi fattori costituiscono, al momento, il principale fattore di rischio nel porto e possono seriamente minare le condizioni di sicurezza sul lavoro”.
Camminiamo, l’ingegnere è provvido di notizie. Vedo ragazzi soprattutto stranieri negli stabilimenti Rosetti, dove costruiscono le imbarcazioni. La vecchia Mecnavi, infatti, è diventata due società che si dividono l’area portuale: da una parte si fa il nuovo, dall’altra la manutenzione. Quando arriviamo alla fine del cantiere l’operaio Ruggiu, indicando il bacino di carenaggio, mi avverte: “Ecco, la Montanari stava proprio in questo posto”. Qui si consumò la tragedia. La nave stava dove adesso ce ne è un’altra di colore rosso e dove si svolge un’attività continua da ogni parte. Il lavoro di manutenzione è sempre lo stesso di allora anche se sono passati vent’anni. I picchettini operavano in spazi stretti, strisciando come i minatori, spostandosi tra le intercapedini, sporchi nel viso di fuliggine, al buio pesto, uno vicino all’altro come i topi capaci di sopravvivere anche negli spazi più angusti. Come ratti stavano nel doppiofondo della nave, a un’altezza che al massimo era di 90 centimetri, manualmente e con i secchi, con stracci e raschietti stavano faticosamente portando via la nafta residua e tutto il materiale infiammabile, aspiravano con pompe nei cunicoli distribuiti a nido d’ape. Niente di altamente professionale, una cosa che potevano fare tutti. Così come i carpentieri che tagliavano le lamiere in avanzato stato di corrosione che andavano sostituite. Proprio questa coabitazione sciagurata e l’incuria della proprietà provocò la tragedia. Lavoravano “al limite delle possibilità umane”, come scrisse un magistrato, “in un buco senza uscita, sdraiati per dieci ore al giorno, con l’aria che mancava e la testa che girava per le esalazioni dell’anidride carbonica”, come raccontò un ragazzo che si salvò perché aveva preferito licenziarsi qualche mese prima. I turni normali allora erano di 12-14 ore.
Anche Monsignor Tonini, nell’omelia funebre che si tenne in Duomo tre giorni dopo, usò frasi che poi passarono alla storia, che posso immaginare altisonanti e severe: “Fossero andati i genitori a visitare quei cunicoli avrebbero detto: ‘no, figlio mio! Meglio povero, ma con noi!’ Avrebbero avvertito l’umiliazione spaventosa, la disumana umiliazione. Un ragazzo di 17-18 anni che è costretto a passare dieci ore in cunicoli dove – posso dire la parola? Non vorrei scandalizzare – dove possono vivere e camminare solo i topi! Uomini e topi! Parola dura, detta da un vescovo all’altare: eppure deve essere detta, perché mai gli uomini debbano essere ridotti a topi!” Mi torna in mente il romanzo di John Steinbeck, un libro degli anni ’30 drammaticissimo, derivato dai versi del poeta scozzese Robert Burns, Uomini e topi, dove per la prima volta, come scrisse Claudio Gorlier, nel romanzo realista “si accenna ai piani architettati da uomini e topi che spesso sortiscono cattivo esito, e invece della gioia promessa recano null’altro che dolore e sofferenza”. La Montanari era una gasiera con un serbatoio in vista sul ponte e due sotto, dentro la stiva. Al lavoro ci stavano in diciotto operai proprio nella stiva 2, dipendenti di sei ditte diverse, l’uno all’insaputa dell’altro. Il turno era iniziato alle7,30. Ma tutto in realtà cominciò alle 9,00, mentre “…il carpentiere Pirri (che poi subì una condanna, anche se lieve al processo) stava praticando un taglio a L sotto il serbatoio numero 4”, questo dicono le carte processuali, e lì si sviluppò un principio d’incendio. Pirri in un primo tempo cerca come può di intervenire, tenta di soffocare il principio d’incendio con i propri guanti da carpentiere e con stracci di cui dispone per pulirsi le mani”. Un altro operaio, Bazzana, messo sull’avviso dalle grida al fuoco di Pirri scavalca la sella che lo separa dal collega per aiutarlo. Sono momenti di panico là sotto. Lo stesso testimonierà: “il calore prodotto dalla fiamma aveva nel frattempo provocato lo scioglimento del catrame, e dopo pochi istanti una fiammata ha incendiato il rivestimento del bombolone sviluppando una notevole quantità di fumo”. I periti scriveranno: “Una corretta organizzazione del lavoro avrebbe richiesto progettazione, pianificazione e programmazione degli interventi avendo cura di stabilire priorità e compatibilità degli stessi”.
Cominciano ad arrivare le squadre dei vigili del fuoco, tra le 9,20 e le 9,50, e il primo corpo senza vita, quello di Marco Gaudenti fu estratto non con poche difficoltà alle 10,45. La cosa più agghiacciante furono i tonfi che si sentirono degli operai che battevano disperati con i martelli contro le pareti della nave alla ricerca di aiuto, mentre i vigili cercavano di individuare l’esatta posizione di questi per tagliare le lamiere e creare così una via di fuga. Le immagini del fotografo Augusto Ballestrazzi scattate in presa diretta sono impietose: raccontano tutte le scene del tentativo di salvataggio, i fumi che si sprigionano dalla nave, gli schiumogeni che ricoprono il fondo del bacino, gli altri operai che con gli sguardi rettili sono in attesa, i vigili del fuoco distrutti, i volti pieni di disperazione, che cercano di praticare fori nella chiglia, lottando contro il tempo azionano le lanciafiamme nell’intento di aprire dei buchi e liberare i gas che si stanno sprigionando all’interno.
Li tirarono fuori che erano già tutti morti. L’inviato de L’Unità Jenner Meletti scriverà il giorno dopo sul giornale: “Lo guardiamo da vicino, questo ragazzo con la faccia nera di catrame. Si chiamava Paolo Seconi, aveva 23 anni. Basta osservare i suoi vestiti, per capire quali tremendi lavori deve accettare chi per anni ha cercato un lavoro ‘normale’ e non lo ha trovato. Paolo ha la testa coperta da un pesante passamontagna, indossa tre maglioni, ha pantaloni di velluto spesso. E sopra tutto ha un cappuccio, giacca e pantaloni di tela cerata, e lunghi stivali”. Come quelli dei ragazzi che ho visto muoversi oggi dentro le navi di questi stabilimenti: i macedoni che fanno i ponteggi, i portoghesi, i rumeni, gli algerini e i senegalesi, gli albanesi, “che quando fanno gruppo sono pericolosi”, mi ha detto Hermes, un operaio piccoletto di Bertinoro che lavorava in cantiere quel 13 di marzo e di quella disgrazia non vuole più parlare, perché lui c’era ma tiene la bocca cucita, gli fa troppo male, inutile insistere, e gira in bicicletta perché di questa nave è l’Rtl, e cioè il responsabile tecnico lavoro, colui che controlla e monitora ogni tipo di operazione. Hanno facce che sanno di passato questi lavoratori stranieri, tute slabbrate e cappellini messi all’incontrario, con la visiera dietro i capelli, bandane strette sulle tempie, fumano tutti come dannati. Hanno qualcosa di antico come i minatori fotografati da Salgado: gli occhiali protettivi, cerchiati dalla fuliggine, i guanti sporchi di catrame, le pesanti scarpe antinfortunistiche.
Il vigile del fuoco Ivo Burbassi fu tra i primi ad accorrere e coordinò le operazioni, suo malgrado. Lo incontro alla Camera del lavoro di Ravenna il pomeriggio. Ha un’aria seria di persona onesta, scrupolosa, quella di uno che nella vita ha sempre pensato di fare bene il proprio dovere. “Quando siamo arrivati eravamo già sicuri che c’era della gente che era rimasta nella nave, ma all’inizio si parlava di una, due persone al massimo. Noi siamo intervenuti subito con l’intento almeno di salvarne qualcuno, ma per le dinamiche dell’evento non ci siamo riusciti” racconta come se rivivesse la scena, gli occhi lucidi persi nel vuoto. Mi spiega tecnicamente quali e quante furono le mancanze che portarono alla morte diquei poveracci. “Il problema è che si lavorava con scarsa luce, quindi Pirri non ha visto le chiazze di nafta, poi ha tentato di soffocare l’incendio con i guanti perché non aveva neanche a disposizione un estintore, e poi mancava una seconda uscita ed era del tutto assente la ventilazione. Quindi i lavoratori si sono rifugiati nel doppiofondo e con il martello battevano quei maledetti colpi”.
Burbassi è scientifico, di una precisione impressionante: “Quando siamo arrivati abbiamo tagliato nel punto dove si sentiva battere, abbiamo tagliato le lamiere, ma quando li abbiamo raggiunti purtroppo non c’era più niente da fare”. Adesso il vigile è commosso, ha come una piccola incrinatura nella voce, ma poi si riprende subito: “Quando abbiamo recuperato i corpi, siccome non erano stati raggiunti dall’incendio non mostravano segni di bruciature. Ricordo uno di questi uomini, uno che doveva andare in pensione dopo pochi giorni, e fu mandato lì perché erano in ritardo con il lavoro di picchettatura”. Gli suggerisco il nome, Vincenzo Padua, un siciliano. “Si, ecco,” fa lui, “Padua. L’abbiamo trovato verso le due del pomeriggio, seduto con la testa reclinata, il secchio in mezzo alle gambe, il martellino ancora stretto nella mano. Non si era mosso di un millimetro”. Prima di lasciarci, mi confessa che come vigile del fuoco gli resta l’amarezza per non essere riuscito a salvare nessuno quel giorno. “Guardi, io sono stato anche alla stazione di Bologna dopo la strage del 2 agosto, ma lì almeno uno, alle otto e mezzo di sera, lo abbiamo trovato ancora in vita.” I parenti dei lavoratori di Bertinoro non se la sentono di incontrarmi, certi sono molto vecchi mi hanno detto, non hanno voglia di riaprire la ferita. L’unico che riesco a rintracciare, manco a farlo apposta, è proprio il figlio di Padua, l’operaio di cui ho sentito parlare per tutto il giorno.
Il povero Padua, per l’appunto. Anche Ruggiu me ne aveva fatto cenno al cantiere. Il figlio è molto giovane e abita ad Alfonsine, un paesino qua intorno, sulla provinciale che porta a Ferrara. Scrive libri, e in uno di questi, La luce blu delle margherite, una sorta di autobiografia d’invenzione (come diceva Bilenchi si inventa sempre partendo da una realtà) parla anche di suo padre. Quando lo raggiungo in questa piccola casa di periferia, stretti intorno al tavolo di un tinello rabbuiato, mi trovo di fronte un ragazzo molto dolce nei modi, quasi un po’ intimidito dalla mia presenza. Ecco, partiamo dal passo del libro propongo. Glielo leggo: “Eravamo al terzo set di una partita combattuta, quando vidi un’auto familiare affiancarsi alla recinzione del campetto. Era mia madre. Suonò il clacson e mi fece cenno di salire. Io le feci capire che non avevo nessuna intenzione di andare via così presto, ma lei mi fissò con uno sguardo che mi fece rabbrividire. Compresi che era successo qualcosa di molto grave, e non mi sbagliavo. ‘Siamo rimasti soli’ mi disse con voce rotta. Mio padre era morto. La nave attraccata al porto dentro la quale stava lavorando insieme con altri dodici operai, quasi tutti alla prima esperienza, aveva preso fuoco, e la stiva in cui in quel momento si trovavano si era trasformata in una camera a gas. Non c’era stata nessuna possibilità di salvezza”. Cominciamo da quel giorno suggerisco. Mi racconta che abitava a Marina di Ravenna e frequentava ancora le scuole medie, solo più tardi si trasferirono nelle case di Mezzano. “Mio padre mi accompagnava tutte le mattine a Ravenna, dove poi prendevo la corriera per arrivare a Marina, a scuola. Quindi mi accompagnava prima di andare a lavorare e gli orari erano assurdi, mi dovevo alzare alle cinque per essere a scuola alle otto, perché io stavo con i suoi orari”.
Ricorda perfettamente quel pomeriggio. Stava giocando con i compagni, sua madre sarebbe andata a prenderlo come sempre la sera. Però appena uscito da scuola cominciò a sentire di questo incidente che era successo ai cantieri. Sua madre allora faceva le pulizie in una discoteca. “Mi ricordo che è venuta a prendermi e mi ha portato a casa di mio fratello. Lei sapeva dell’incidente, però c’erano delle voci contrastanti”. All’inizio sembrava che la nave dove lavorava suo padre non fosse coinvolta, sembrava che non fossero davvero morte delle persone. “Quella mattina a Ravenna è stato un incubo” ricorda, “tra ambulanze ed elicotteri, la città era in subbuglio”. Poi lui va a giocare con gli amici al campetto, e a un certo punto un ragazzino gli fa: “Ma tu non ti chiami Padua di cognome?”. Lui dice sì, e l’altro insiste: “Mi sa che c’era anche tuo padre nell’incidente”. Non sapeva niente in quel momento, fin quando non si affianca la macchina in quel campetto, dietro la chiesa dove stava giocando e vede sua madre dietro e i suoi cugini alla guida. “In quel momento sono schizzato via, e mia madre mi fa: guarda è successo un incidente nella nave dove lavorava il babbo, si è fatto male”. Vanno insieme a casa di suo fratello. “Nel momento in cui siamo rimasti da soli le ho chiesto: ma dimmi la verità, è morto? E lei, in lacrime, ha confessato”.
Sul tinello della casa di Massimo, appesa alle pareti, c’è una foto di tutta la famiglia, è un giorno di festa, sono tutti in posa, e il padre accarezza i suoi figli con tenerezza. “Dopo tanti anni eravamo tranquilli, i miei genitori, che pure avevano avuto momenti non facili nella vita di coppia, erano entrati in una fase buona, tutti e due siciliani, lui di Gela e lei di Caltanissetta.” Suo padre sarebbe andato in pensione da lì a qualche mese, avevano questo appartamento grande, pensavano di fare insieme tutti quei viaggi che non avevano mai potuto fare, “perché quando lui arrivava a casa era ridotto ai minimi termini, lavorare in quelle condizioni era pazzesco”. Purtroppo sono costretto ancora a chiedere. Cosa è successo dopo, come è cambiata la sua vita. Con la voce rotta dall’emozione mi dice: “La cosa più crudele è morire sul lavoro, dopo è stata una tragedia, anche perché io ero piccolo, mia madre ne è uscita proprio devastata, si è lasciata andare moltissimo, anche a livello estetico, non si curava più, cosa alla quale lei aveva sempre tenuto moltissimo. È invecchiata subito, sarà stata forse la mia impressione, però a me è parso così. Mi ha condizionato tantissimo, più di quanto posso ammettere, tuttora faccio fatica a parlarne. Però era una tragedia annunciata, questa l’idea che mi sono fatto dopo tanti anni. Trovo assurdo che non mi abbia mai detto niente delle condizioni in cui viveva ogni giorno... lavoravano come dei topi, veramente” dice sconsolato. Scrive sempre nel suo libro Massimo Padua, chiudendo quel breve racconto dove per la prima volta dopo tanti anni è riuscito a stanare un piccolo pezzo segreto di quella storia: “Quello fu un giorno tragico non solo per noi e per tutti i famigliari delle vittime, ma per l’intera città di Ravenna. Il mio eroe, o ciò che ne era rimasto, se n’era andato via per sempre insieme alla mia innocenza”.
Voglio ringraziare innanzitutto il segretario della Camera del Lavoro di Ravenna Luigi Folegatti, la signora Diana Valenti, provvida di notizie e imbeccamenti, il responsabile della Fiom Milco Cassiani, l’ingegnere Sartoris, il simpatico vigile del fuoco Ivo Burbassi, e il fotografo Daniele Maurizi, gattescamente complice e felpato negli scatti, e ancora Rudi Ghedini al quale ho saccheggiato a man bassa parte di questa memoria.