La scelta di ispirarsi al modello tedesco è “la strada giusta – scrive in un commento sull’Unità Luigi Mariucci, docente di diritto del lavoro all’università di Venezia – se si vogliono affrontare i problemi reali ed evitare di dar vita a logoranti quanto inutili guerre ideologiche”. Dopo aver sottolineato “la questione dei tempi: se i processi tra i vari gradi durano fino a sei-sette anni, la reintegrazione con l'aggiunta del risarcimento diventa un non-senso. Qui occorre quindi adottare misure cogenti di accelerazione delle controversie, come giustamente si sta ipotizzando al tavolo del confronto governo-sindacati”, Mariucci affronta l'“altra cosa che non funziona nell'art. 18” e cioè “la rigidità del meccanismo e del criterio che ne delimita il campo di applicazione: la famosa soglia dei 15 dipendenti”.

“Tale soglia non è più attendibile, – scrive il giuslavorista – anche in ragione dei diffusi processi di esternalizzazione del ciclo produttivo e del mancato calcolo di un numero rilevante di dipendenti (apprendisti, somministrati, lavoratori a termine ecc.). Questa soglia andrebbe rivista o introducendo criteri più razionali di valutazione della potenzialità economica dell'impresa, secondo formule già previste dalla Unione europea per il calcolo delle dimensioni d'impresa, o ispirandosi anche in questo caso al modello tedesco. Lì la legge sui licenziamenti del 1951 si applica alle imprese con più di 5 dipendenti ed è il giudice (non il datore di lavoro) a decidere, salvo il caso in cui sia provato il carattere discriminatorio del licenziamento, se disporre la reintegrazione ovvero stabilire un equo indennizzo in rapporto alla natura del caso, alle dimensioni dell'impresa e al comportamento delle parti”.