Pubblichiamo di seguito un'intervista ad Agostino Marianetti tratta da "Giuseppe Sircana, Un giorno e una vita". Roma 6 luglio 1960 , Ediesse 2011
La mattina del 6 luglio con il gruppo dirigente della Camera del Lavoro – io ero segretario della Fiom romana – si stabilì che saremmo andati tutti a Porta San Paolo e che, nel caso ci fossero stati incidenti o problemi, ci saremmo visti la sera tardi in sede, a Piazza Vittorio. Era un momento di grande tensione e sapevamo che la situazione poteva degenerare per responsabilità della polizia o di elementi incontrollabili. Io andai con un altro compagno socialista, Giovanni Massarelli, che faceva parte della segreteria della Fillea. Venivamo tutti e due dalla provincia – io da Colleferro, lui da Civitavecchia, di cui sarebbe diventato sindaco – e spesso mangiavamo insieme in qualche trattoria intorno a Piazza Vittorio. Io avevo vent’anni e lui circa trentacinque. A Porta San Paolo ci trovammo, come un po’ tutti, coinvolti negli incidenti, nelle cariche, più scappando che aggredendo. Per indole personale non sono un violento e neanche troppo coraggioso. E poi c’era il problema dell’handicap di Giovanni, che camminava con i piedi rivolti all’interno e questo rendeva un’eventuale fuga piuttosto complicata. Insomma, da una parte volevamo stare lì e dall’altra cercavamo di non essere troppo coinvolti, metterci al riparo. Era tarda sera quando decidemmo di tornare alla base e, siccome non circolavano più i mezzi pubblici, fummo costretti a farcela a piedi. Per Giovanni fu un vero tormento, si tolse le scarpe e aveva questi piedi difettosi che quasi gli sanguinavano. Perciò arrivammo alla Camera del Lavoro molto più tardi degli altri e trovammo Angelo Mazzucchelli preoccupatissimo. Mazzucchelli, che faceva parte della segreteria camerale, si considerava un po’ il mio tutore, perché veniva pure lui da Colleferro e mi aveva voluto con sé a Roma.
Malgrado la giovane età avevi già maturato qualche esperienza in fatto di scontri di piazza?
Marianetti Ero già stato fermato due o tre volte. A quei tempi non dico che fosse quasi abituale, però capitava. Una volta fui fermato durante uno sciopero sulla Prenestina. Mi portarono al commissariato di San Lorenzo e passai lì l’intera giornata, perché mi ero rifiutato di firmare il verbale che non riportava esattamente quello che avevo dichiarato. «Va bene – disse il commissario – allora tenetelo lì fino a quando non si decide». Io non mi decidevo e alla fine a cavarmi dagli impicci arrivarono il solito Mazzucchelli e Claudio Cianca, che era parlamentare. Ma l’esperienza più significativa in questo campo l’ho vissuta esattamente un anno dopo i fatti di Porta San Paolo, nel luglio 1961, quando mi sono fatto i miei cinque giorni a Regina Coeli. C’era stata una manifestazione antifranchista alla basilica di Massenzio, con la partecipazione di Pietro Nenni e Luigi Longo. All’uscita si formò un corteo, ma in maniera quasi naturale… Si sa che al termine di una manifestazione si creano dei flussi, degli incolonnamenti, ma per la polizia si trattava di corteo non autorizzato. Ci fu una carica che innescò degli incidenti abbastanza seri. Ero andato a quella manifestazione insieme a un gruppo di giovani socialisti. Abitavamo tutti lì vicino, alla fine di Via Cavour, in una specie di foresteria del partito, un appartamento molto grande, dove una vecchia compagna ci faceva da mangiare. Si chiamava Bianca ed era la nostra regina! Al termine della manifestazione siamo saliti nel nostro appartamento e quando, un paio di ore più tardi, siamo scesi di nuovo in strada abbiamo trovato una certa agitazione. Ad un tratto mi sono sentito prendere dietro le spalle e ho pensato che fossero dei poliziotti. In realtà era un gruppo di fascisti venuti lì per dare una lezione a quelli che avevano manifestato contro il dittatore spagnolo Francisco Franco. Intervenne la polizia che ci mise dentro un camion. Arrestarono anche cinque o sei persone che non c’entravano niente, che stavano lì in pantaloncini per rimorchiare le straniere… Siccome lì in mezzo io ero l’unico che avesse una qualche "carichetta" cercavo di rassicurare gli altri: "Adesso ci portano in questura e poi ci rilasciano". E infatti ci portarono in questura, ma dopo il controllo dei documenti, le impronte, eccetera non ci mandarono a casa ma a dormire sul tavolaccio. Naturalmente erano tutti un po’ preoccupati, ma io continuavo a tranquillizzarli: "Va bene ci toccherà passare la notte sul tavolaccio, ma vedrete che domani mattina…".
E invece?
Marianetti La mattina fummo svegliati, caricati su un camion e portati a Regina Coeli. Ci tennero lì per cinque o sei giorni. Poi ci fecero il processo per direttissima – eravamo tutti rinchiusi dentro una gabbia – e la maggior parte di noi venne condannata a 20 giorni di reclusione, per non aver ottemperato all’ordine di scioglimento del corteo. Era falso e durante il processo avevo insistito con l’avvocato Bertuccelli, che faceva parte del nostro collegio di difesa, perché contestasse la tesi dell’accusa: "Guarda Giuliano – gli dissi – noi a questo corteo non c’eravamo. Ci hanno preso due ore dopo". E lui mi rispondeva: «Lascia perdere». «Ma come lascia perdere?», facevo io. Continuai a insistere finché a un certo punto mi rivelò: "Guarda che abbiamo fatto già l’accordo: vi daranno una pena lieve con la condizionale". "Ah, così funziona?", dissi io, alquanto perplesso.
Da dove scaturiva questa tua passione politica che poi hai in gran parte riversato nell’impegno sindacale?
Marianetti Io sono stato coinvolto, diciamo così, da infante. La mia era una famiglia socialista. Mio padre fu licenziato nel 1950 in seguito all’occupazione della fabbrica e la nostra famiglia venne a trovarsi in una situazione difficile. Con quattro figli era dura andare avanti. Abbiamo sofferto la fame vera e mia madre si mise a vendere la cicoria al mercato. Quando entrai in fabbrica, a sedici anni, divenni l’unico sostentamento della famiglia. Per questo la mia decisione di andare alla Fiom e di trasferirmi a Roma preoccupò non poco i miei genitori, soprattutto la mamma. Ero ancora ragazzo e poi la situazione del sindacato non era certo florida. Ricordo che con Franco D’Onofrio facevamo il giro – a volte in motocicletta a volte con una giardinetta – di tutte le piccole fabbriche romane per riscuotere il pagamento dei bollini del tesseramento in modo da poter prendere un acconto sullo stipendio.
Nella descrizione della vita in foresteria, dell’arresto e del processo del 1961 si avverte un sentimento di appartenenza a una generazione, che è poi quella dei cosiddetti "ragazzi con la maglietta a strisce". Questa solidarietà generazionale l’hai avvertita anche in seguito?
Marianetti In quella foresteria eravamo tutti giovani, c’erano compagni che venivano da altre città, intellettuali come Lucio Libertini, che veniva da Torino ed era un po’ l’ideologo del gruppo. Lui poi fece la scissione del Psiup, mentre io lì dentro ero l’unico della cosiddetta destra socialista. Ma intorno a me sentivo molta solidarietà, mi volevano bene. Venivo un po’ idolatrato come il giovane operaio che lavorava in fabbrica, il ragazzotto che veniva dal paese ed era tutto casa e lavoro, sindacato e partito. Anni dopo anche nella segreteria nazionale della Cgil sono stato l’unico che avesse alle spalle quel tipo di esperienza. Ho avuto, come saprai, un rapporto speciale, una sintonia personale e politica con Luciano Lama. Luciano dimostrava un’ampia apertura riformista e non avrebbe disdegnato l’ipotesi di unità socialista. Poi c’è stato il crollo, dovuto alle vicende di Tangentopoli, con il distacco da quelle che erano state le mie ragioni di vita. Mi sono sentito oltraggiato, rappresentato come un malfattore, quando tutti sapevano come stavano le cose. Tra rabbia e cocente risentimento ho ritenuto che la cosa più dignitosa da fare fosse quella di chiudere la mia vicenda politica, che, per quanto mi riguarda, considero comunque bella.