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Credo di aver avuto pressappoco 14 anni quando ho incrociato per la prima volta l’espressione “anomalia italiana”. Sono passati quarant’anni, sono stati abbattuti il Muro di Berlino e le Twin Towers e l’anomalia è ancora tutta lì. Basta dire scudo fiscale, lodo Schifani, lodo Alfano e processo breve; o guardare al modo in cui se ne discute su gran parte della stampa italiana e su quella del resto del mondo per rendersene conto con una evidenza che fa male. Di più. Nell’era Berlusconi l’anomalia è come teorizzata, rivendicata. Si favoriscono gli evasori fiscali, li si premia. Si fanno leggi ad personam, si delegittimano istituzioni e poteri autonomi, si alimenta l’insofferenza verso le regole ad ogni livello. Insomma: perché la partita “cultura della legalità e rispetto delle regole” non è stata ancora vinta dalla democrazia italiana? Quale fase stiamo attraversando? Di questo e molto altro abbiamo discusso con Marcelle Padovani (corrispondente permanente di Nouvel Observateur in Italia, autrice di film-reportage sulla mafia e di numerosi volumi, tra i quali La Sicilia come metafora, con Leonardo Sciascia, Cose di Cosa Nostra, con Giovanni Falcone, e Mafia, Mafias, uscito in Francia da poche settimane).
“Le mie impressioni su questo periodo sono molto contraddittorie – argomenta la giornalista –. Se mi avesse fatto la stessa domanda qualche anno fa, è probabile che le avrei risposto con più ottimismo. La cosa che trovo preoccupante è che è diventato legge sparare sulla legge e sulle regole. Quasi come se ci fosse una gara a chi la dice più grossa contro le strutture della convivenza sociale, del rispetto verso l’altro, dell’osservanza, appunto, delle regole. Credo che questo sia uno dei momenti più bui che io abbia vissuto in questo paese. Eppure ho vissuto in Italia altri momenti molto duri. Ricordo ad esempio i giorni del rapimento di Aldo Moro. Ricordo tanta angoscia, ma allo stesso tempo una capacità di mobilitazione e di partecipazione che ci portava a incontrarci per strada, nelle piazze, dappertutto, per parlare e confrontarsi. In quel momento lì ho realizzato che il terrorismo in Italia non sarebbe stato sconfitto dalle leggi eccezionali, che per fortuna non ci sono state, o dalla repressione, com’è accaduto ad esempio in Germania, ma dalle persone, dalle piazze, dalle fabbriche, che ebbero in quella fase un ruolo importantissimo. Ciò che intendo dire è che in quel momento che sembrava così buio c’era una grande consapevolezza di che cos’è uno Stato, e delle ragioni per le quali uno Stato non può venire a patti con dei delinquenti travestiti da rivoluzionari rossi.
E oggi?
Purtroppo nella sensibilità popolare non incontro più questa volontà di rispondere assieme ai grandi problemi, a volte non so nemmeno se ci sia la consapevolezza dei grandi problemi. Mi domando ad esempio se oggi l’italiano medio si interroghi sugli attacchi alla Costituzione, se la famiglia media si lamenti del fatto che l’evasione fiscale cresce, che c’è insofferenza verso tutto ciò che è diverso, che non c’è più voglia di rispettare e neanche più semplicemente di tollerare chi non la pensa come te. Penso di no, e penso che questa mancanza di sentire comune sia preoccupante.
Rispettare le regole è giusto, eppure il fatto che sia giusto non basta a farle rispettare. Perché la cultura delle regole si diffonda e si traduca in pratiche c’è bisogno che i cittadini siano indotti a ritenere “conveniente” il rispettarle. Da osservatrice, “esterna” ma non troppo, delle faccende italiane, cosa pensa del fatto che il sistema Italia ad ogni livello di fatto non premia i comportamenti rispettosi delle regole?
Più volte mi sono ritrovata a fare paragoni con la Francia: un paese dove effettivamente c’è un rispetto diffuso per la legalità, dove quel che è vietato di norma non si fa. E poiché ho avuto e ho molte ragioni per amare questo paese, mi sono altrettanto spesso chiesta perché in Francia sì e qui no. La prima risposta che mi sono data è che in Francia il cittadino si confronta con un’amministrazione che lo rispetta. Se una persona ha un problema con il fisco, può fissare un appuntamento, parlare con il personale preposto, chiedere chiarimenti, definire modalità di pagamento, discutere le scadenze ecc. Quello che intendo dire è che c’è un modo dell’amministrazione di accogliere i cittadini che favorisce molto l’adozione di comportamenti virtuosi da parte di questi ultimi. In Italia invece l’amministrazione assomiglia troppo spesso a una macchina ideata per romperti le ossa, per complicarti la vita. È un’amministrazione arrogante, rigida nella forma ma non nella sostanza. Secondo me, dunque, c’è il senso dello Stato proprio perché, mi si passi il “bisticcio”, c’è lo Stato, che è nato con Carlo Magno nell’800 e che gradualmente si è radicato e ha allargato la sua influenza, anche territoriale. Uno Stato che ha fatto della centralizzazione una risorsa importante per sviluppare tra i cittadini il senso dell’interesse collettivo.
Alla connessione forte tra centralizzazione e senso dell’interesse collettivo che lei suggerisce si potrebbe di primo acchito obiettare che ci sono numerosi esempi che dimostrano il contrario, valga per tutti quello della Germania.
Non conosco bene l’esempio tedesco, ma credo si possa dire che ogni Land in Germania amministra come se fosse uno Stato. In ogni caso quello che mi pare davvero controproducente è il fatto che ci siano tante leggi diverse sullo stesso argomento da parte delle Regioni, delle Province, dei Comuni. In Italia accade spesso che Regioni ed enti locali si sovrappongano tra loro e con lo Stato, si muovano nello stesso spazio, cosicché non si capisce mai bene chi è responsabile di una cosa e chi no e tutto questo finisce, da un lato, per determinare disordine, scoraggiamento, e, dall’altro, per rappresentare una spinta oggettiva a risolvere tutto con il contatto personale, con la richiesta del favore, con l’incitamento a corrompere. Tutto questo è avvilente, per la pubblica amministrazione e, ancora di più, per il cittadino.
Ha mai pensato che in Italia fosse possibile una strada diversa?
Sì. Ricordo un episodio che mi colpì molto. Era il 1973, ero da poco arrivata in Italia e diretta a Fiumicino, con l’autobus, da Roma Termini. A un certo punto mi accorsi che stavamo andando al paese e non all’aeroporto. Mi prese l’angoscia, parlavo male l’italiano, chiesi all’autista e questi mi spiegò che avevo sbagliato mezzo. Ma non si fermò qui, perché, cosa da non credere, mi portò all’aeroporto con l’autobus. La grande generosità degli italiani, la loro innata capacità di improvvisare, di trovare delle soluzioni, di mettersi a livello dei problemi delle persone mi aveva fatto immaginare che le regole potessero non essere indispensabili. È una “fantasia” che mi è passata molto presto. Per tornare allo Stato che non c’è, ancora negli anni 70 una signora mi ha raccontato una storia che per me ha dell’incredibile. Questa signora si era trovata in difficoltà e aveva dovuto portare tutti i suoi gioielli al Monte di pietà della sua città, Palermo. L’anno dopo, quando va a pagare e ritirare i gioielli, arriva con venti minuti di ritardo rispetto alla scadenza stabilita e l’impiegato le spiega che non può più riscattare i suoi gioielli: in pratica li ha persi. La signora in questione si dispera, torna a casa, piange, si sfoga con un’amica che le dice vieni, andiamo da don Carlo. Don Carlo è un mafioso, si fa raccontare i fatti, poi dice alla signora di tornare il giorno dopo. L’indomani lei torna, lui le dà i gioielli e lei paga soltanto quello che avrebbe dovuto pagare all’amministrazione per recuperarli. Ecco, la mia domanda è: è “intelligente” uno Stato che si comporta così con i suoi cittadini?
Proviamo a guardarla anche da un altro lato. Peter Schneider, nel pieno del ciclone Tangentopoli, siamo nei primi anni 90, scrive su Micromega: “Quando un popolo si sceglie per decenni dei capi corrotti, quel popolo non può diventare automaticamente pulito mandando a casa o in galera i suoi capi. I comportamenti assimilati durante il periodo della grande corruzione non si estinguono di colpo. Né possono essere aboliti per decreto. … Gli italiani non possono ingannare sé stessi e pensare di essere immuni dalla corruzione”. A quasi venti anni di distanza alcune cose sono cambiate, molte altre, purtroppo, no. Perché questo deficit di ruolo della classe dirigente?
La classe dirigente attualmente al potere in Italia è totalmente irresponsabile. Quando un presidente del Consiglio dichiara che tra un po’ ci sarà il 50 per cento degli italiani che non pagherà il canone Rai, legittimamente tale dichiarazione viene letta come un incitamento a non pagare. Un ceto dirigente che dà questo esempio, che pensa che la ricchezza ti metta al di sopra della legge e delle regole, può fare molto male al proprio paese. Bisogna auspicare che il primo tempo, quello dell’accondiscendenza, persino dell’ammirazione, lasci al più presto il posto al secondo, quello in cui si chiede conto dell’operato delle classi dirigenti, ad ogni livello. Da questo punto di vista ritengo sia indispensabile salvaguardare la capacità della magistratura di essere autonoma, di svolgere il suo compito con imparzialità e garanzia di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Mettere in discussione questa autonomia significa oggi condannare l’Italia a un ritorno al medioevo.
Quando nel 2002 lessi Dodici anni dopo, la prefazione alla nuova edizione di Cose di Cosa Nostra, mi piacque molto quella sua immagine del virus della legalità che si propaga. Ancora oggi resto convinto che l’esercizio consapevole della responsabilità da parte dei cittadini sia la risposta più efficace e credibile alla crisi identitaria, legale, morale che attraversa il paese. Ma se la convinzione è rimasta, nutro molti più dubbi sulla possibilità di vederla realizzata. Lei oggi scriverebbe ancora che il virus della legalità in Italia si sta diffondendo?
Oggi risponderei che il virus della legalità per il momento si è addormentato, ma che prima o poi si risveglierà. Vorrei spiegarmi con due esempi. Il primo si riferisce al 1976, anno in cui ci fu un lungo sciopero dei netturbini romani. Era luglio, faceva un caldo atroce e a quel tempo abitavo al primo piano in un palazzo qui a Trastevere. Sotto le finestre i cumuli di “monnezza”, come si dice a Roma, si facevano sempre più alti e naturalmente, con il caldo, l’odore diventava ogni ora più nauseabondo. Mi chiedevo come fosse possibile tutto questo quando un giorno vidi arrivare dei giovani con dei piccoli carri che cominciarono a raccogliere l’immondizia. Naturalmente scesi e chiesi chi fossero; la risposta fu: “Siamo del Partito comunista italiano, apparteniamo alla sezione qui dietro”. Segnalai l’episodio in un mio articolo per indicare quella che per me era una vera cultura della legalità, un esempio virtuoso di governo alternativo del territorio. Il secondo episodio si riferisce ai giorni nostri. Oggi abito in uno stabile popolare dove vivono una trentina di famiglie e dove è stata introdotta la raccolta differenziata. Ebbene, è una battaglia continua quella che combatto assieme ad altre due o tre persone affinché si utilizzino nel modo giusto i vari contenitori. In particolare sembra sia un problema comprendere che dove c’è la spazzatura biodegradabile non si deve mettere la plastica. Ogni giorno devo togliere dal contenitore del biodegradabile i sacchetti di plastica, che non lo sono, li devo svuotare del loro contenuto e mettere nel contenitore che raccoglie plastica, vetro, metallo. Ecco, direi che questa “piccola” grande differenza tra il 1976 e il 2009 segnala qualcosa di significativo circa il decadimento dell’attenzione e della passione per la legalità.
(da Il Mese)