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Bruno Trentin si sta prendendo una rivincita. Aveva lasciato, nei suoi “Diari”, relativi ai pochi anni della sua permanenza come segretario generale della Cgil, una testimonianza spesso addolorata. Quasi un messaggio di solitudine. E invece in queste settimane abbiamo assistito, proprio attorno ai “Diari”, un'estesa attività fatta di convegni, discussioni, riflessioni. Era quello che avrebbe voluto. Spesso in questi incontri si sottolinea il ruolo anticipatore della sua lezione, in altri se ne sottolinea l’attualità.
Una lezione spesso severa nei confronti dell’agire sindacale, quella di Bruno. Come quando, proprio nei “Diari”, se la prende con i dirigenti per i quali conta di più la quantità che la qualità degli accordi. Essi si disinteressano così dei contenuti, pensando che “con tanti contratti, quali essi siano”, si ottiene “tanto prestigio professionale e tanto potere”. Con una caduta culturale “nella capacità di analisi della società contemporanea, delle trasformazioni e delle disarticolazioni del conflitto di classe, delle nuove soggettività che si fanno strada”.
Insiste Trentin: “Non c’è niente di così vecchio e stantio che questa riscoperta della contrattazione fine a se stessa, senza obiettivi e senza regole, senza scala di valori, senza gerarchia di priorità, senza gradualità. E non c’è nulla di più patetico che vedere riaffermare questo primato della contrattazione senza obiettivi, invocando le virtù di un sindacalismo pragmatico, non ideologico, senza tabù, sanamente innovatore e, perché no, riformista; quando è solo l’ultima trincea di ceti burocrati dequalificati che affidano ai mass media e alla benevolenza dei loro formali interlocutori la propria sopravvivenza”.
Quale sarebbe invece la contrattazione di qualità? Suggerisce Trentin: “Sarebbe necessario affrontare i problemi dell’organizzazione del lavoro che cambia, della professionalità che si trasforma, delle nuove tecnologie e della loro erratica adattabilità ai mutamenti del mercato, così come delle loro nuove possibilità di predeterminarlo”. Trentin pensava, in sostanza, a un’utopia realistica quotidiana. La parola utopia risuonava anche in un libro intervista (“Il coraggio dell’utopia”, curato dal sottoscritto), ma non era l’attesa messianica di un rivolgimento generale e neppure la conquista di un posto nella cosiddetta “stanza dei bottoni”. Era la costruzione di un movimento capace di conquistare una rete di diritti e di mutare con questi le forme oppressive del lavoro.
Una scelta che veniva da lontano, dagli anni sessanta, quando firmava come segretario della Fiom un contratto per i metalmeccanici che assegnava più peso alla parte normativa rispetto alla parte salariale. Una scelta confermata davanti alla Fiat, durante l’autunno caldo, quando polemizzava con i ragazzi di Lotta Continua, che definivano i rappresentanti sindacali eletti dalla base "delegati bidone", contrapponendo a questa novità una più alta richiesta salariale. Sempre ne “Il coraggio dell’utopia” aveva spiegato come “una persona, la quale, anche per un’ora della sua vita, sia soggetta a un lavoro parcellizzato, in cui viene espropriata della sua capacità creativa o della sua autonomia di decisione, è un uomo segnato in tutta la sua vita e nelle sue attività quotidiane, libere o non libere che siano”.
Non sono elaborazioni, quelle di Trentin, riferite a un vecchio sorpassato sistema produttivo. Valgono soprattutto per il futuro, per l'oggi. Lo si capisce meglio rileggendo alcune pagine del suo volume “La città del lavoro”. Non a caso nella prefazione dell’edizione francese, Jacques Delors scrive che Trentin “va più lontano di ogni visione dell’autogestione e della cogestione” proprio partendo dell’idea che fonda il lavoro, cioè la libertà e l’autorealizzazione della persona, e cerca di costruire insieme la società del lavoro senza ingenuità, senza illusioni basiste, con il concorso di tutti: dallo studioso all'ingegnere, dall'operaio al capo officina, dal programmatore al responsabile.
Negli ultimi anni di vita, Trentin, come testimonia il suo ultimo discorso tenuto a Fermo, commentando un libro di Angelo Ferracuti (“Risorse Umane”), torna a proporre quella che è stata una sua ossessione: “La libertà attraverso la conoscenza, la formazione continua, un mezzo insostituibile per consentire alle persone di realizzarsi nel lavoro”. Rilancia, nello stesso tempo, una sua idea di solidarietà, in questa nostra complicata epoca, da costruire tra i lavoratori, superando divisioni tra chi ha il posto fisso e chi no. Era tutto più facile una volta, operare nei grandi agglomerati di operai e impiegati. Una nuova solidarietà, argomentava, “non si costruisce più sul salario uguale o sull’orario uguale, perché le persone sono diverse, perché le persone sono delle entità assolutamente inconfondibili con altre, ecco perché soltanto sui diritti individuali noi possiamo immaginare di costruire una nuova solidarietà e una nuova rappresentanza del sindacato basata su questa solidarietà”.
Una rappresentanza non più di ceti, di classi, ma “di individui che nel sindacato attraverso un’esperienza solidale diventino persone coscienti, capaci di decidere e di ritrovare nei diritti degli altri il sostegno alla singola battaglia loro”. Per far questo servono, certo, anche misure organizzative: più o meno quelle che la Cgil sta intraprendendo (penso all’esperienza del sindacato di strada nel Mezzogiorno) nel contesto attuale. Sono rimasto molto colpito da una dichiarazione di Massimo Bonini, segretario generale della Cgil a Milano. “Accanto a tanti sforzi individuali e organizzativi per adeguarci ai cambiamenti – ha affermato –, restano lentezze e resistenze che dovremmo superare per affrontare un mondo del lavoro sempre più sbriciolato, dalle palestre agli spazi di coworking”. E ha aggiunto: “Non riesco a non pensare al sindacato delle origini e a Giuseppe Di Vittorio che andava nei campi a cercare i braccianti uno per uno. Ciascuno di quei lavoratori era solo e si è trovato un sindacalista che gli è andato incontro”.
Nuove scelte organizzative collegate a quella nuova impostazione che la Cgil di Trentin aveva scelto già nella Conferenza sul programma fondamentale, svolta a Chianciano nel 1989, fondata proprio sulla necessità di partire più dalla persona che dalla classe. Una scelta che teneva conto della frammentazione del mondo del lavoro, dell’ingresso di nuove rivoluzionarie tecnologie. In un recente incontro promosso da Nidil, Claudio Treves ha posto alcuni interessanti interrogativi proprio sul che fare del sindacato dopo la conquista di diritti. Deve solo vigilare? E quanto può reggere di fronte alla segmentazione del mercato del lavoro la ricetta trentiniana di un nuovo ruolo della persona?
Una risposta a tale interrogativo potremmo darla, credo, a fronte di un bilancio critico delle esperienze fatte in materia di contrattazione. Quanto e come il sindacato ha saputo intervenire sui problemi dell’organizzazione del lavoro? Come ha sottolineato lo stesso Treves, c’è stato un abbandono del controllo e del governo dell’organizzazione e si è avuta una pluralità delle tipologie lavorative, una pluralità delle applicazioni contrattuali, fino alle problematiche del welfare contrattuale che segmentano sempre più lavoratori, interessi e solidarietà. Un accenno, neanche troppo velato, ai tanti accordi che hanno recepito facilitazioni varie, dai corsi di lingua all’uso di palestre, tralasciando le tematiche dei lavoratori precari presenti in azienda.
Quante volte, ricordava lo stesso Trentin, abbiamo ceduto a degli accordi che prevedevano per i nuovi assunti un salario inferiore nel 20, del 30% al salario dei lavoratori più anziani? Certo c’è stata quella che è stata chiamata contrattazione inclusiva e che ha prodotto accordi e risultati, ma anche qui sarebbe necessario un bilancio per delineare limiti e vuoti. “Ci si è soffermati più su istanze salariali che su parametri connessi all’organizzazione del lavoro e alle professionalità”, come ha sottolineato qualche giorno fa, intervenendo a un convegno sull’attualità di Trentin, Susanna Camusso. Una contrattazione, quindi, non in grado di affrontare “i processi di trasformazione”.
Era questo uno dei crucci principali di Trentin, che nel 2005 in un’intervista a Giovanni Avonto, diceva: “Nella lotta al precariato, quanto abbiamo sottovalutato l’arma del diritto alla formazione, come continuità, come sicurezza di fronte a un lavoro indubbiamente più flessibile, più mobile, che non in passato. O quando siamo caduti nella trappola che bisognava diminuire il salario dei giovani per aumentarne l’occupazione”. E insisteva sulla formazione permanente come punto fondamentale. Aggiungendo: "Fin quando non sarà il primo punto delle piattaforme rivendicative sindacali anche sui luoghi di lavoro, non usciremo da questa fase difensiva”.
Un altro aspetto importante della lezione trentiniana riguarda la necessità di collocare l’iniziativa del sindacato in un orizzonte più ampio. È stata questa l'ambizione del programma fondamentale di Chianciano. Quel programma non si è però tradotto nell’individuazione di finalità per cui l’organizzazione intera si batte. Un’osservazione che può adattarsi anche alla recentissima Carta dei diritti universali, che per vivere dovrebbe potersi tradurre in prime esperienze concrete. Dico questo pur essendo consapevole del fatto che la Carta rappresenta una proposta, insieme al Piano del lavoro, di grande valore nel cuore di una stagione politica confusa, dove sono davvero tanti i soggetti alla ricerca di motivazioni e contenuti identitari.
A maggior ragione di fronte alla possibilità di avere un futuro Parlamento dove non ci sia posto per una rappresentanza del lavoro, sarebbe stato una guaio se la Cgil non avesse elaborato la proposta della Carta dei diritti. Essa può essere, credo, la cartina di tornasole per un confronto con le forze politiche, per difendere la propria autonomia e per additare quel che può essere un percorso di sinistra, senza diventare galoppini elettorali al servizio di questa o quella formazione. Gli scritti di Trentin possono servire anche a questo scopo: “L’impresa moderna – affermava – si troverà sempre più a fronteggiare una straordinaria contraddizione: quella fra il bisogno di promuovere una partecipazione intelligente del lavoro esecutivo al governo e al controllo del processo di produzione, e di coinvolgere il lavoratore in una serie di competenze e di interventi che fuoriescono da una prestazione meramente esecutiva, e dall’altro lato la crescente insicurezza non sulla durata del rapporto di lavoro, ma sulla definizione del progetto che dovrebbe vincolarlo, sui diritti e le prerogative, la retribuzione che vi corrispondono. Il movimento sindacale e una sinistra riformatrice possono entrare in questa contraddizione e superarla con nuovi modelli di contrattazione collettiva e con un nuovo modello di Stato sociale”.
Erano proposte che Trentin ostinatamente riproponeva a forze politiche di sinistra e sindacati. Con qualche ascolto nel sindacato e molta indifferenza nei partiti. I “Diari” che ci ha lasciato sono una testimonianza della sua sofferenza, sono ricchi di elaborazioni, e anche di annotazioni intime, spesso disperate, nonché di giudizi ostili su persone a lui vicine, giudizi da prendere un po’ come sfoghi del momento, da custodire, appunto, in un diario non pubblico. Molti amici e compagni hanno accolto quelle pagine con qualche sgomento. Io voglio solo dire come anche queste estreme confidenze di Bruno rappresentino la testimonianza di come sia messa a dura prova la vita del dirigente sindacale che non si accontenta del tran tran quotidiano e vuole davvero tentare di cambiare le cose, raggiungere risultati. Altro che “casta”. Bruno si disperava per quella che chiamava la fatica di Sisifo. Ma non mollava.