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Sabato 25 agosto 2012, a Cincinnati, Ohio, è morto Neil Armstrong, comandante della missione Apollo 11, primo uomo ad aver camminato sulla Luna. Sono nato nel 1960 e per tutta la mia infanzia, adolescenza e fino all’età adulta la minaccia nucleare è stata sospesa sulla testa della mia generazione. Missili balistici intercontinentali a testata multipla attendevano nell’oscurità dei loro silos. Squadroni di bombardieri strategici, costantemente in volo, erano pronti a sorvolare gli oceani per attaccare in profondità il territorio nemico.
E sotto quegli stessi mari navigavano, invisibili, flotte di sommergibili pronti a spingersi a ridosso delle coste avversarie per colpire senza preavviso. Ma quella guerra di mutua distruzione non si combatté mai. Fu invece mutata in quell’avvincente corsa allo spazio cominciata il 12 aprile 1961 con il lancio di Jurij Alekseevič Gagarin, primo cosmonauta sovietico. Lassù, fuori dall’influenza della gravità terrestre, le due superpotenze combatterono una battaglia di supremazia tecnologica e umana per stabilire chi fosse il più forte sul nostro pianeta.
Intendiamoci, non fu quella un’epoca senza guerre. Nel ’62 aprì l’elenco bellico del decennio il conflitto sino-indiano. Nel ’63 si combatté la Guerra della sabbia tra Marocco e Algeria. Nel 1964 iniziò la Guerra del Vietnam che durò fino al ’75. Nel ’66 fu la volta della Guerra di indipendenza della Namibia. Sarebbe durata fino al 1989. Il 5 giugno del 1967 scoppiò la Guerra dei sei giorni che ebbe un seguito tra il ’68 e il ‘70 con la Guerra di attrito nel Sinai. E nel 1969 si svolse la Guerra del calcio tra Honduras ed El Salvador. Senza contare, nell’aprile del ’61, il fallimentare sbarco anticastrista della Baia dei Porci. Alcuni di questi conflitti avevano direttamente a che fare con un impegno bellico delle due superpotenze o ne riguardavano in qualche modo gli interessi. Ma la corsa allo spazio fu - in qualche modo - l’unico vero confronto diretto tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America in quel decennio.
Il 12 settembre del 1962, in un discorso alla Rice University di Huston, Texas, John Kennedy definì le ragioni e gli obiettivi dell’impegno americano nello spazio: “William Bradford, parlando nel 1630 alla fondazione della Colonia di Plymouth Bay, disse che tutte le grandi e onorevoli imprese sono accompagnate da grandi difficoltà e sia le une che le altre vanno affrontate con corrispondente coraggio.
Coloro che ci hanno preceduto hanno fatto sì che questo Paese cavalcasse le prime ondate della rivoluzione industriale, delle moderne invenzioni, dell’energia nucleare. E questa generazione non intende affondare nella risacca della nascente età dello spazio. Noi ne dobbiamo far parte, noi la dobbiamo guidare. Perché gli occhi del mondo ora sono rivolti allo spazio, alla Luna e ai pianeti più lontani, e noi abbiamo giurato che non lo vedremo governato da un’ostile bandiera di conquista, ma da una di libertà e pace. Abbiamo giurato che non vedremo uno spazio pieno di armi di distruzione di massa ma di strumenti di conoscenza e comprensione.
Non ci sono, a tutt’oggi, lotte, né pregiudizi, né conflitti tra nazioni nello spazio. Le sue incognite ce lo rendono ostile. La sua conquista è degna delle qualità migliori dell’essere umano. Scegliamo di andare sulla luna. Scegliamo di andare sulla Luna in questo decennio e di compiere altre imprese, non perché esse siano facili, ma perché sono difficili. Perché quest’obiettivo renderà necessario organizzare e misurare al meglio le nostre energie e le nostre capacità. Perché questa sfida è tale che siamo pronti ad accettarla. E non siamo disposti a rimandarla. E intendiamo vincerla come altri intendono fare”. Kennedy aveva gettato il cuore oltre l’ostacolo. Un ostacolo che si chiamava Luna e si trovava a quattrocentomila chilometri dalla Terra.
Per l’America quella corsa era iniziata in salita. Più volte i sovietici erano arrivati primi. Avevano lanciato il primo satellite artificiale e il primo uomo nello spazio. Ma la mobilitazione umana e industriale che Kennedy annunciò con quel discorso fu imponente e vincente. L’industria aerospaziale degli Stati Uniti si misurò - prima che contro l’apparato militare-industriale sovietico - in un’accesa competizione interna per sviluppare gli strumenti necessari all’impresa che portò, per esempio, all’ideazione e allo sviluppo del modulo lunare a due stadi Lem da parte della Grumman Aerospace Corporation.
Neil Armstrong, nato nel 1930 in Ohio, aveva combattuto nella guerra di Corea e si era laureato in ingegneria aeronautica nel 1955. Entrato alla Nasa (l’agenzia spaziale americana) fu pilota dell’aereo sperimentale X-15 con cui - avendo volato a un’altitudine superiore alle 50 miglia - ottenne la qualifica di astronauta. Nel 1966 comandò - unico astronauta civile del programma spaziale americano - la missione Gemini 8 che compì un passo fondamentale: l’aggancio tra due veicoli spaziali, determinante per le future missioni lunari. Era avvenuto il sorpasso. Gli americani avevano compiuto, per la prima volta, un’operazione prima dei sovietici.
Sfiorò la morte nel 1968 a causa di un incidente mentre era ai comandi di un Llrv, veicolo che serviva a simulare le operazioni di decollo e atterraggio verticale sul suolo lunare. Il 16 luglio del 1969 decollò da Cape Kennedy l’Apollo 11. Armstrong era il comandante dell’equipaggio composto da Buzz Aldrin, pilota del modulo lunare, e Michael Collins, pilota del modulo di comando.
La sera del 20 luglio, per la prima volta nella mia vita, ebbi facile gioco nel convincere i miei genitori a non mandarmi a letto. La mia fu la generazione dei bambini che giocavano a fare gli astronauti: quegli uomini in tuta pressurizzata - che combattevano una guerra di cui eravamo del tutto inconsci - erano, per noi, eroi adamantini, esploratori e conquistatori tecnologici dell’ignoto più ignoto. La tv era in bianco e nero e Tito Stagno e Ruggero Orlando raccontarono la discesa verso la Luna del modulo Eagle di cui non potemmo vedere neanche un’immagine. C’erano solo quelle voci gracchianti e soffocate che, via radio, comunicavano a Huston le fasi della missione. Stagno annunciò l’allunaggio. Orlando negò recisamente e tra i due si scatenò il primo litigio della storia della tv italiana. Roba da niente, in confronto a quel che, oggi, si vede tutti i giorni nei talk show. Ma allora fece sensazione.
Poi venne di nuovo la voce di Armstrong via radio: “Houston, Tranquillity Base here. The Eagle has landed”. Houston, qui Base della Tranquillità. L'Aquila è atterrata.Nel corso della discesa il computer di bordo era collassato a causa dell’accensione erronea di un radar. Armstrong pilotò manualmente l’ultima fase della discesa. Giunti nella zona di atterraggio gli astronauti si accorsero che il terreno del Mare della Tranquillità era molto più accidentato di quanto si attendessero. Armstrong cercò febbrilmente una zona in cui posarsi. Quando il Lem toccò il suolo gli erano rimasti solo 25 secondi di carburante.
Intorno alle 5 del mattino italiane (le trasmissioni della Rai erano finite da un pezzo) Neil Armstrong scese sul suolo lunare. Pronunciò una frase davvero poco originale ma che è, comunque, rimasta nella storia “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande passo per l'umanità”. Armstrong e Aldrin piantarono una bandiera americana e posarono una targa con le firme loro e del presidente Richard Nixon e un’iscrizione che recitava: “Qui uomini dal pianeta Terra fecero il primo passo sulla Luna. Luglio, 1969 d.C. Siamo venuti in pace per tutta l'umanità”. Ma, in un certo senso quella targa diceva “siamo arrivati prima noi”. Gli americani avevano vinto la corsa. Quanto ai sovietici, non riuscirono mai ad arrivare sulla luna. Nemmeno per secondi. Il loro progetto per un grandioso razzo lanciatore fallì totalmente.
Quella guerra mai apertamente combattuta finì in realtà molti anni più tardi. Ma con quel passo lungo quattrocentomila chilometri Armstrong conquistò la vittoria in una battaglia fondamentale. E permise a noi, bambini di una generazione che non ha conosciuto la guerra, di sognare la Luna, le stelle e un futuro degno di essere atteso.