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Parto da un ricordo di qualche anno fa. Sono a Macerata, alla Biblioteca comunale mentre Luigi Di Ruscio sta leggendo Le Mitologie di Mary. Legge e tossisce, poi ricomincia divertito: "Io amo la Norvegia e anche mia moglie nordica, in Italia non avevo mai capito bene che vivevo in un pianeta tanto ero immerso nel sociale", e poi riprende: "Le mie paure non sono le sue paure… comunque oggi è festa nazionale". Si ferma, dice: "Scusate, mi rileggo molto raramente." Applausi spontanei. Legge ancora, poi fa: "Continuo?".
La sua voce adesso intona un altro brano potente: "Il fascino della Rivoluzione d'Ottobre è troppo grosso per spararci sopra, con tutto il mio populismo avrei sparato sui sanfedisti e mi avrebbero azzannato. Teorizzo anche una non appartenenza a questo vostro mondo, però pago le tasse senza il minimo trucco, ho trasportato tutto l'universo linguistico italico ad Oslo anche perché occupava pochissimo spazio. Ho trapassato le frontiere senza nessuna noia doganale, come un re incoronato…". Poi, quasi affaticato dalla lettura, afferma: "Adesso leggiamo le poesie, la prosa è stancante".
Penso che un poeta che ha vissuto il populismo e gli anni cinquanta, dove la forza della comunicazione era soprattutto nel parlato, emigrando e "isolandosi" è riuscito a salvare l'oralità, il discorso diretto, questa è la sua principale forza. Dice che aveva pensato di scrivere un libro Istruzioni per l'uso della poesia. Del progetto però c'è solo questa prima pagina che leggerà. Attacca: "Non scrivete le poesie se nello scrivere non ne ricavate rilassatezza, felicità sessuale, leggerezza nei contatti con il prossimo tuo, se non senti lo stesso iddio in prossimità della tua ombra, gioia lavorativa in fabbrica, scioltezza nel lavoro manuale, aumento vertiginoso della creatività mentre scrivi, sviluppo imprevedibile della personalità, leggermente inebriato, come a precipizio. Se tutto questo non succede smetti subito. La gioia della poesia è solo nello scriverla".
E più avanti: "Sarai assalito da associazioni mentali meravigliose e imprevedibili. Scrivi con le spalle bene appoggiate alla spalliera della sedia, scrivi per ore e ore senza stanchezza… piove, nevica, tutto irrompe e avanza, avanzano le fiamme dell'incendio, il Titanic affonda e tu imperterrito a scrivere un verso dietro all'altro e a smascherare anche l'iddio immobile e tutti i maiali delle logge massoniche più coperte, tutte le carogne associate e persino la repubblica nostra".
Continua, la sua prosa sembra crescere dentro le ruote dentate di un ingranaggio che trascina, trova nell'enunciarsi sempre una nuova forza espressiva che nasce da una lingua incandescente. Poi tra un aneddoto e l'altro, racconti che strappano le risa ai presenti, comincia a leggere le poesie de L'ultima raccolta (Manni). Parla di Zamora, il portiere più famoso di quando era ragazzo, al quale ha dedicato dei versi dove lo paragona a Cristo in croce che sembra "parare tutti i peccati del mondo". Poi passa veloce a Firmum (peQuod) un'autoantologia dove si raccoglie un lavoro in versi che va dal 1953 al 1999. Legge una poesia di Enunciati: "Quando nel paesaggio ancora invernale morso dal gelo / improvvisamente esplode la fioritura del mandorlo / la precocità e l'estrema debolezza del tuo splendore". Poi un epigramma: "Ti auguro una felice pasqua / mangerai la carne e il sangue / di nostro signor Gesù / e speriamo che qualche osso rimasto non ti strozzi". Risate.
Dice compiaciuto: "Questa poesia era impossibile scriverla. La cosa che mi incuriosiva della comunione è quando il prete diceva il sangue e il corpo di Cristo, ma gli ossi dove passano? Mi chiedevo". Ride piuttosto rumorosamente. Anche noi del pubblico ridiamo. Poi Luigi si ricompone, torna un silenzio serioso nella stanza della biblioteca. Avverte che leggerà una poesia nata in fabbrica e tratta da Istruzioni per l'uso della repressione, pubblicata da Savelli nel 1977. "Finivamo di lavorare verso mezzanotte", racconta, "poi andavamo a fare la doccia tutti insieme. A un tratto uno di noi disse che aveva visto un ratto tra i macchinari. Altri cominciarono a parlare di un porco. Allora quando sono andato a casa ho scritto la poesia di getto".
Legge compenetrato: "Chiudere un porco vero nel reparto / non un porco normale / un porco insomma un maiale insomma / chiuderlo nel reparto per otto ore / vediamo come reagisce l'associazione protezione animali / vediamo come reagisce a questa estrema crudeltà un maiale / schianta strozza impazzisce si indemonia / vediamo se è ancora commestibile". Il finale è molto sovversivo: "Apri il suo cervello vedi cosa medita / misura la sua rabbia aspettatati che scoppi". Erano gli anni settanta. Dopo l'applauso riprende: "Il reparto era abbastanza infernale, però ricordo con nostalgia gli operai con i quali lavoravo. Tutti norvegesi". Legge un appunto da una scaletta che però ha tradito sin dall'inizio: "Un mese fa sono stato invitato ad una festa nella Camera del lavoro di Oslo. Ci sono andato con mia moglie, festeggiavamo i nostri 45 anni di iscrizione al sindacato metallurgico. Sono orgoglioso di essere stato uno di quelli considerati l'avanguardia della classe operaia".
Torna indietro fino a una delle prime poesie che ha scritto: "Fa parte di Non possiamo abituarci a morire, l'ho pubblicato nel 1953, e allora avevo ventitré anni". Fu edito da Schwarz con una prefazione del giovane Fortini, che di lui scriveva: "Gli aspetti risentiti del parlato e del gergo si sovrappongono intenzionalmente alle strutture della lingua colta e letteraria, per più forti risultati". Di Ruscio scartabella, scruta tra un mucchio di fogli. Chiede se ci sono delle domande. Allora Reinhard Sauer, il presentatore della serata, docente di Letteratura tedesca all'Università, gli chiede se si sente più poeta o scrittore di narrativa. Lui gli risponde secco: "Io semplifico molto: quando le cose vanno per le lunghe è prosa, quando le cose sono molto corte è poesia". Risata generale, applausi.
Poi all'improvviso legge una cosa che ha trovato scritta su un muro e ha annotato in un taccuino: "Ciao mondo, è iddio che vi saluta". Siccome nessuno fa altre domande dice che inizierà a leggere un passo del suo romanzo fluviale Cristi polverizzati. Invece poi cambia idea e legge una poesia di Ibsen che ha tradotto, Il potere e la memoria. Ma subito dopo torna al romanzo, che ha un attacco fulminante: "Parto difficilissimo, spesso si nasce venendo stritolati, lo shock dell'aria freddissima rispetto al calore del ventre materno, la luce vivissima, i rumori assordanti, la poesia retrocede verso la prima angoscia". A un certo punto molla. È solo un assaggio. Adesso c'è solo tempo per le domande.
Prima però legge un testo molto comico dove rivela come ha cominciato a scrivere. Racconta che un professore un giorno incontrò suo padre e gli disse: lo sa che suo figlio scrive anche delle poesie? E si sentì rispondere: "Caro professore, quello è capace di tutto". Segue una risata generale. La lettura è finita, Luigi firma le copie. Davanti a lui, sul tavolo, c'è un esemplare dell'ormai storica prima edizione Transeuropa del Palmiro, con in copertina la celebre foto dei pugili di Sander. Un piccolo classico ormai purtroppo introvabile nelle librerie. "L'Italia più esilarante e poetica del dopoguerra. Il romanzo di un formidabile Pci", recita l'ammiccante strillo editoriale.
Fu quel giorno che pensai di chiedergli un libro dove potesse aggregare la sua memoria di straniero, di forestiero, negli anni in cui eravamo noi italiani a cercare rifugio in mezzo mondo. E oggi quel libro c'è, e c'è anche un Di Ruscio scatenato, furibondamente vitale, comico e caustico allo stesso tempo, irriverente al massimo, che torna in queste pagine con una lingua graffiante ed eversiva che, come scrisse Italo Calvino: "Ricorda Cèline, per la volontà di scaricare nel flusso delle parole una cupa aggressività". Attuale e potente come pochi per la forte capacità di testimonianza, oltre che per l'indiscusso valore stilistico, La neve nera di Oslo cresce lungo una narrazione fluviale in prima persona, e in presa diretta, che questo "ultimo picaro" (come lo ha definito il critico Massimo Raffaeli) fa avanzare tra bizzarre considerazioni politiche e filosofiche, intrecciate al vivere sociale e quotidiano, alle aspirazioni e ai sogni di un emigrato italiano. Argomento della narrazione diventa la vita privata: le comicissime vicissitudini familiari e gli alterchi con la moglie vegetariana e animalista, la nascita dei figli, l'odissea della vita di fabbrica che è rappresentata come un girone dell'inferno, e l'orgoglio di appartenere a una classe operaia che va oltre l'appartenenza diventando condizione umana universale.
Poi tutti gli Iddii, i Cristi e le Madonne che il bestemmiatore io narrante e alter ego dello scrittore nominano mai invano, e, naturalmente, il farsi e il disfarsi della scrittura, la quale entra prepotente nella vita e se ne nutre come una sanguisuga: "La scrittura si complica maggiormente perché io con mia moglie e un figlio e ultimamente mi è nata anche una femmina abitiamo in una camera e cucina e ormai non so più dove piantare la macchina da scrivere per i romanzi consecutivi e non si sa più quando battere le letterine metalliche che piombano sulla carta senza svegliare". Intorno il malinconico ed esistenzialissimo paesaggio lunare di Oslo, che lo scrittore attraversa in bicicletta o a piedi, per recarsi all'Istituto italiano di Cultura a caccia di libri da leggere, e una metropoli tra i ghiacci che sentirà per sempre straniera, dove la neve diventa quasi un personaggio.
Ottantenne, molto amato da Franco Fortini, Paolo Volponi, Salvatore Quasimodo, che lo definì "uomo d'avanguardia nel senso positivo, cioè della fede nell'attualità e per la violenza del discorso", con questo nuovo libro Luigi Di Ruscio sembra chiudere quel suo lavoro coerente in prosa che era cominciato con Palmiro, e continuato con Le mitologie di Mary e Cristi polverizzati, dove vita e scrittura s'incontrano per diventare una cosa sola. E dopo un'esperienza letteraria durata oltre mezzo secolo, per la prima volta dismette i panni e la nostalgia dell'esule che racconta l'infanzia italiana, gli apprendistati politici di comunista, la provincia marchigiana e italiana degli anni cinquanta e, con questo libro, forse tra i suoi il più bello e lirico, ci fa capire cosa significa per uno scrittore emigrare in Scandinavia e vivere in un isolamento linguistico e sociale che è da sempre quello di tutti i migranti.