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Lo sport fa bene: ma non a tutti. Dietro alle quasi 15 milioni di persone che in Italia praticano una qualsiasi attività o disciplina sportiva esiste un esercito di lavoratori invisibili che, pur contribuendo al nostro benessere fisico e materiale, operano in condizioni di massima precarietà, spesso con retribuzioni che sono poco più che rimborsi spese e, in aggiunta, generalmente privi di tutele previdenziali e assistenziali. Situazione ancora più intollerabile se si pensa alla dimensione economica rilevante che negli anni ha assunto il settore in Italia: l’1,4 per cento del Pil, che arriva al 4 se si considera anche tutto l’indotto.
C’è, in sostanza, un intero mondo fatto di atleti, istruttori, allenatori, tecnici, addetti alla riabilitazione, personal trainer, insegnanti di nuoto, tecnici e amministrativi che attendono un riconoscimento adeguato al ruolo che svolgono nella nostra società. Difficile dire quanti siano: secondo i dati elaborati dal Coni sono solo 117.000 le persone che hanno riconosciuta la qualifica di lavoratori, ma secondo stime attendibili nella realtà a operare nel comparto ci sarebbero oltre un milione di persone.
“Persiste un vecchio vizio – spiega Fabio Scurpa, che per la Slc Cgil si occupa di questo comparto tra mille ovvie difficoltà –, quello di considerare questi lavoratori come volontari, dilettanti. La realtà è un’altra: dietro ai risultati dei nostri migliori atleti, e per realizzare dimensioni economiche di questa portata, ci sono grandi professionalità spesso non riconosciute. Per questo abbiamo voluto chiamare la nostra recente campagna ‘Lavoro per lo sport, non per sport’. Questa consapevolezza, tuttavia, manca agli stessi lavoratori: capita spesso che arrivino da noi maestri di tennis di 50 anni sorpresi perché il loro estratto conto contributivo risulta vuoto. Serve insomma una grande opera di sensibilizzazione sui diritti”.
Il sistema delle retribuzioni: professionisti e non
Questa situazione deficitaria, sia dal punto di vista retributivo che da quello dei diritti e delle tutele, è però perfettamente legale. La regolamentazione del professionismo, infatti, è fissata dalla legge 91 del 1981, la quale a sua volta lascia alle diverse federazioni la possibilità o meno di riconoscere il professionismo stesso. A farlo sono state solo in quattro: calcio, ciclismo, golf e pallacanestro e, ulteriore discriminazione, solo per gli uomini. Tutte le altre federazioni, le associazioni e le società sportive, le discipline sportive associate, gli enti di promozione sportiva e le associazioni benemerite (in totale 92 enti che organizzano la pratica sportiva in oltre 72.000 associate) considerano l'attività sportiva puro dilettantismo o volontariato. Non si tratta di un aspetto solo nominalistico, perché questa distinzione ha pesanti ricadute pratiche.
La situazione è paradossale: sono le singole federazioni a decidere del professionismo dei propri atleti
La mancanza di una disciplina legislativa organica nel settore dello sport dilettantistico ha favorito il proliferare di situazioni di precarietà strutturale e persistente, lavoro sottopagato e nero con elusione di quanto previsto in materia di rapporti di lavoro. Chi lavora in queste condizioni, infatti, può ancora essere inquadrato come co.co.co. anche se ha un rapporto dipendente e, soprattutto, può essere retribuito fino a 10.000 euro l’anno sotto forma di rimborso spese. “Questo compenso – spiega Ilaria Pasqui, ex calciatrice, due volte campionessa italiana e oggi responsabile dell’Ufficio legale dell’Aic per il settore dilettante – viene inquadrato come ‘reddito diverso’, con una tassazione agevolata rispetto alle normali aliquote Irpef.
Quasi tutti i lavoratori delle sport sono pagati fino a 10.000 euro con un semplice rimborso spese
Pertanto non vi è nessun tipo di tutela assicurativa, previdenziale o per la maternità. Capita così che tanti atleti, dopo aver dedicato 20 anni della loro vita all'attività sportiva, magari avendo anche dovuto rinunciare a un percorso di studio, si ritrovano a 35 anni senza aver maturato alcuna tutela”. In questa situazione così pesante si trovano anche atleti importanti: sportivi che ci rappresentano alle Olimpiadi, ai Mondiali o agli Europei di tante discipline, magari anche vincendo delle medaglie importanti ma che formalmente rimangono dilettanti. Non è un caso che oggi l’unico modo per essere regolarmente retribuiti a fronte di un impegno costante negli allenamenti – che è tutto tranne che dilettantistico – è quello di essere inquadrati nelle Forze Armate. Discorso simile vale anche per istruttori, trainer, allenatori.
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“Il mondo professionistico di alto livello non ha bisogno di tutele perché già ne ha: ci sono accordi collettivi e, quando sorgono problemi, esistono i collegi arbitrali interni alle federazioni; altrimenti come extrema ratio si va dal giudice del lavoro – spiega Renzo Ulivieri che, dopo una brillante carriera da allenatore mai disgiunta da un forte impegno civile e politico, oggi è presidente dell’Associazione italiana allenatori –. Diversa la situazione del mondo dilettantistico, dove non c’è alcuna tutela ed è ancora tutto da normare”. Per Ulivieri non ci sono dubbi: “Anche se formalmente sono dilettanti, atleti, allenatori e tecnici sono lavoratori a tutti gli effetti e, dunque, devono essere retribuiti come tali, comprese quindi le coperture previdenziali e assicurative. Abbiamo anche pensato come associazione di intraprendere una causa pilota presso un giudice del lavoro contro una società dilettantistica per chiedere il riconoscimento pieno delle ore lavorate, ma finora questa strada non l’abbiamo intrapresa. È il caso di mettersi intorno a un tavolo e cercare di arrivare, anche insieme al sindacato, a cambiare le norme che regolano questo sistema”.
Storia di un allenatore
Massimiliano Socci fa l’allenatore di calcio ed è responsabile del settore giovanile dell’Igea Marina, società di Rimini. La sua, racconta, è una società seria: “Ad esempio, ti pagano anche quando sei in malattia. Si tratta, però, di un atto di buona volontà. E naturalmente sul piano previdenziale, essendo retribuito sotto forma di rimborso, non ho nulla”. Stesso discorso per la formazione, tutta a carico del lavoratore: “Quando ero ragazzino – racconta l’allenatore – ci allenava il postino. Oggi questo lavoro richiede una professionalità sempre maggiore. Il corso di abilitazione Uefa, per esempio, è obbligatorio e io me lo sono dovuto pagare da solo”. Insomma, osserva Scurpa, “è tutto lasciato all’iniziativa dei lavoratori: non solo la formazione, ma anche l’assicurazione personale. Chi lavora specialmente con i minori non è solo un allenatore, ma un educatore e le società sanno bene le responsabilità che hanno nei confronti dei ragazzi e delle loro famiglie. Pretendono dunque personale sempre più qualificato che, però, paradossalmente, è costretto a fare tutto da sé”.
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Il sindacato, in collaborazione con diverse associazioni che operano nel comparto, sta provando a intervenire e a intercettare questi bisogni. “Ma con questo quadro normativo non è facile – riprende Scurpa –, più di tanto non si può fare. Se non si mette a punto una nuova legislazione, è tutto complicato: il sistema è impermeabile alle regole che valgono per tutto il resto del mondo del lavoro, perché qui tutto è in mano a Coni e federazioni”. Condivide Pasqui: “La legge del 1981 va modificata. Il legislatore ha infatti delegato al Coni e alle federazioni sportive di autodeterminare lo status dei propri atleti, il che non è giusto. Si tratta di un’anomalia tutta italiana con la quale il legislatore ha abdicato a una sua funzione fondamentale e grazie alla quale si prescinde da qualsiasi criterio giurisprudenziale per stabilire la subordinazione o meno in un rapporto di lavoro”.
Un contratto c’è
In un settore in cui, grazie a questo quadro normativo, la competizione si gioca tutta sulle retribuzioni al ribasso che creano un pernicioso effetto dumping, arrivare a firmare un contratto che stabilisca regole e soglie minime non è facile. Eppure un accordo esiste e sta pian piano iniziando a diffondersi tra diverse società e strutture sportive. Si tratta del contratto siglato tra Asc (Attività sportive confederate, ente riconosciuto dal Coni) e sindacati e che riguarda gli impianti sportivi: quasi tutte realtà di dimensioni assai ridotte e polverizzate nel territorio. Sono tanti gli aspetti interessanti di questo contratto. Il primo riguarda, spiega Luca Stevenato, presidente di Asc, “il riconoscimento pieno della professionalità del lavoratore sportivo. È la prima volta che a questa figura vengono riconosciute specificità rispetto al corpo generico dei servizi. Per fare questo abbiamo preso atto delle qualifiche e delle professionalità del Coni e del sistema formativo dello Snack e li abbiamo integralmente trasportati all’interno del corpo contrattuale”. L’intesa prevede anche un apprendistato che consente di introdurre i giovani in questo mondo con un significativo percorso formativo e il riconoscimento della stagionalità della prestazione lavorativa. Cose apparentemente normali, ma che nel regno dei rimborsi forfettari sembrano un’utopia, come anche la fissazione di una retribuzione parametrata a seconda delle qualifiche e che a livello medio si traduce in 1.341 euro lordi al mese più 3,5 euro al giorno come “valore presenza”.
Con Asc è stato siglato un contratto che per la prima volta riconosce le professionalità degli addetti
Per cercare di trovare almeno una prima risposta al vulnus di tutele il contratto introduce anche una forma di sanità integrativa e, aggiunge Scurpa, “la previdenza integrativa e un ente bilaterale che ha la funzione di aiutare sia le imprese che i lavoratori. Si tratta naturalmente di uno strumento flessibile e leggero che può essere applicato senza oneri non sostenibili per molte delle piccole imprese del settore”. A questo punto però la domanda viene spontanea. Perché mai le aziende che possono pagare fino a 10.000 euro l’anno sotto forma di rimborso e con particolari agevolazioni fiscali dovrebbero aderire al contratto? “I numeri sono incoraggianti – riprende Stevenato –. Dall’introduzione del contratto, che è stato firmato nel 2015, le adesioni sono aumentate di 10 mila unità. Noi invitiamo sia gli impianti sportivi sia i lavoratori a scommettere sul proprio lavoro, a investire. Vale anche per le aziende che hanno interesse ad avere lavoratori professionalizzati, fidelizzati e non pronti ad andarsene ogni mese per cercare condizioni solo un pochino migliori”.