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L’Istituto nazionale di statistica continua a fotografare impietosamente e a tradurre in cifre la drammatica situazione occupazionale del nostro paese, in un susseguirsi di dati e record negativi. Le percentuali – come quel 13,2%, che rappresenta il tasso di disoccupazione registrato a ottobre del 2014 – sono veri e propri bollettini di guerra che nascondono, dietro la fredda apparenza dei numeri, un più elevato grado di dolore, sofferenza, rabbia, voglia di riscatto. Di fronte ad una situazione così delicata anche il sindacato è chiamato a riflettere sul suo ruolo e sulle modalità di rappresentanza dei lavoratori disoccupati. Da qualche anno, ad esempio, si sta procedendo a un recupero di una particolare forma di lotta, nota come “sciopero a rovescio”.
Già nel 2010 la Cgil di Roma e del Lazio ne riscopriva le potenzialità, invitando gli abitanti di un quartiere della capitale a farsene promotori durante una giornata di mobilitazione per il completamento di un parco archeologico. Nel maggio 2013, poi, un’iniziativa regionale organizzata dai sindacati di categoria degli edili di Cgil, Cisl e Uil culminava in uno sciopero a rovescio presso la Casa delle associazioni di Bologna, con la partecipazione dei lavoratori disoccupati e cassintegrati del settore. Tra maggio e luglio di quell’anno analoghe forme di mobilitazione sono state riproposte dagli edili in Emilia-Romagna e in Umbria. A settembre del 2014 è stato il segretario generale della Fiom Cgil Maurizio Landini a riproporre la formula dello sciopero a rovescio, inteso come un’azione e una mobilitazione in grado di reggere nel tempo e far cambiare idea, su alcuni punti importanti, al governo.
Tra novembre e dicembre questo tipo di sciopero è stato al centro di iniziative organizzate dalla Cgil in Toscana e Lombardia, con l’obiettivo di porre in primo piano il tema del diritto al lavoro. Ma in cosa consiste, precisamente, lo sciopero a rovescio? Prima di tutto bisogna chiarire che questa forma di lotta appartiene al repertorio del movimento dei lavoratori, rappresentando una delle invenzioni più originali della sua storia. Si basa su un meccanismo apparentemente semplice la cui essenza, come spiegava Vittorio Foa, sta tutta nel rovesciamento del senso dello strumento classico di rivendicazione sindacale, lo sciopero. L’astensione dal lavoro, con le sue numerose varianti (generale, totale o parziale, a singhiozzo, a scacchiera e così via), non può essere, evidentemente, praticata da chi è senza impiego. Con lo sciopero a rovescio i disoccupati escono da uno stato di attesa e di forzata inattività, scegliendo di impiegare volontariamente la propria forza lavoro al servizio della comunità in opere di pubblica utilità.
La loro azione è, al contempo, simbolica e pratica. Nella riappropriazione del diritto al lavoro è racchiuso un triplice significato: quello della protesta, quello della denuncia, infine quello propositivo e progettuale. È esistita una fase della storia italiana in cui questo strumento di lotta si è diffuso in maniera capillare sul territorio nazionale, assumendo i caratteri di una mobilitazione di massa grazie alla partecipazione di migliaia di uomini e donne in numerose provincie. Nel periodo compreso tra il 1949 e il 1952, infatti, divenne un formidabile mezzo di pressione sulle autorità centrali e periferiche per ottenere l’assorbimento della manodopera disoccupata tramite interventi statali nel settore dei lavori pubblici. Non fu, però, inventato in quell’occasione. Le sue origini, ancora poco chiare, vanno probabilmente rintracciate nella storia del movimento bracciantile e delle sue battaglie, come quella per l’imponibile di manodopera. Alla fine degli anni quaranta il sindacato svolse un ruolo cruciale: la Cgil, guidata da Giuseppe Di Vittorio, impiegò le migliori risorse umane e materiali a sua disposizione per avviare un momento di riflessione teorica sul tema del lavoro e passare, successivamente, a una fase di organizzazione pratica delle lotte dei disoccupati.
Il risultato più tangibile di questo sforzo fu il lancio del Piano del lavoro (Genova, 4 ottobre 1949, in occasione del II Congresso nazionale della Cgil), piattaforma rivendicativa e progettuale improntata al produttivismo. Il sindacato organizzò, nel febbraio dell’anno successivo, una Conferenza economica nazionale alla quale presero parte economisti e uomini politici di diverso orientamento, per discutere le tematiche sollevate dal Piano e il nodo del suo finanziamento. Sulla scia delle parole di Di Vittorio – che aveva chiamato i lavoratori a un’azione diretta – lo sciopero a rovescio conobbe una diffusione senza precedenti. L’efficacia di questo strumento di lotta era già stata sperimentata, nel giugno del ’49, dai disoccupati calabresi della provincia di Cosenza. Qui le Camere del lavoro e la federazione del partito comunista avevano coordinato azioni rivendicative in diversi paesi della fascia presilana, facendo assumere al movimento un carattere unitario.
Ma fu il collegamento con le lotte per l’attuazione del Piano a favorire una diffusione sul territorio nazionale e un’organizzazione senza precedenti di questi scioperi. Prima di allora, come ha scritto Foa, si può parlare solo di esempi isolati. Quando nel febbraio del ’50, con numerose agitazioni già in atto, si riunì il comitato direttivo della Cgil, divenne chiara la direzione che Di Vittorio intendeva imprimere al movimento per la realizzazione del Piano. Gli obiettivi del progetto del sindacato andavano diffusi e pubblicizzati attraverso una serie di convegni provinciali e tramite la creazione di comitati cittadini. Questo avrebbe permesso anche il coinvolgimento dei ceti medi e la solidarietà delle comunità locali. Ma c’era bisogno, soprattutto, d’individuare azioni concrete, effettive, di massa. E lo sciopero a rovescio apparve lo strumento più adatto per affrontare una delle contraddizioni più evidenti nell’Italia del dopoguerra: la coesistenza di oltre due milioni di disoccupati con intere aree insufficientemente dotate di reti stradali e fognarie, bisognose di opere di edilizia popolare e scolastica, di interventi di bonifica idraulica e agraria.
Le pagine memorabili scritte, nonostante la dura repressione delle forze dell’ordine, dai “volontari del lavoro” nel Fucino, nel delta padano, nel basso Lazio, nel teramano, nel catanzarese e in molte altre provincie, hanno trovato poco spazio nella riflessione storiografica sull’Italia repubblicana. A quasi settant’anni di distanza appare necessario interrogarsi sul senso di quell’esperienza, anche e soprattutto in vista di un suo possibile recupero per affrontare, nella consapevolezza delle mutate condizioni storiche e della permanente centralità del tema del lavoro umano e della sua valorizzazione, la situazione attuale.
* Università di Roma Tor Vergata