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In questo Dantedì, giornata di iniziative che preparano la celebrazione nel 2021 dei 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, abbiamo pensato di coinvolgere il professor Giulio Ferroni, emerito dell’Università La Sapienza di Roma, autore di innumerevoli studi che attraversano l’intera storia della letteratura italiana, a partire dall’omonimo manuale sul quale si sono formati milioni di studenti. Il suo ultimo libro ha per titolo L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia (La nave di Teseo, pp.1226, € 30), un volume poderoso ma leggero, la cui scrittura mescola mirabilmente il ritmo narrativo alla puntualità saggistica, consentendo al lettore di immergersi nell’opera del Poeta ripercorrendone fisicamente i luoghi citati, per restituirci l’Italia che fu, e raccontare l’Italia che è.
Professor Ferroni, la prima domanda è una curiosità che riguarda la costruzione di questo libro. Quanto tempo e quanto lavoro c’è dietro un’opera così imponente?
La cosa fondamentale è stato organizzare il viaggio ogni volta, studiando il percorso geografico, dividendo il Paese in vari settori attraverso la conoscenza di Dante Alighieri. Ma è stato importante anche lasciarsi guidare dal caso. In questo modo, nei luoghi dove sono capitato, ho incontrato anche cose che non conoscevo, andandomi poi a informare attraverso vari canali, compreso il web. Ne è scaturito un lavoro composto da elementi pregressi, conoscenze programmate, altre acquisite osservando i posti visitati. Alla fine del viaggio mi sono reso conto di aver imparato molto.
Oggi è un giorno dedicato a Dante, in vista dei 700 anni dalla morte, nel 2021. Vorrei chiedere a lei, che ha insegnato anche nei licei prima dell’università, e scritto una Storia delle letteratura italiana destinata in particolare alle scuole superiori, se lo studio del Poeta e della sua opera abbia ancora il valore di un tempo.
Nelle scuole bisogna entrare in rapporto con determinati strumenti, messi a disposizione da Dante stesso. Si può studiare Dante per comprenderlo, ma anche per capire la nostra cultura, utilizzandolo come una sorta di commutatore culturale... Questo favorisce gli sguardi sul presente, e i suoi Canti più celebri sono tali anche perché si confrontano con i nostri problemi. Nella scuola deve esserci questa capacità, far agire Dante dinamicamente nel presente, evitando lo studio di carattere strutturalista, troppo scientifico, o di taglio accademico, perché la poesia deve vivere in altro modo, soprattutto quella di Dante Alighieri, che contiene tutto il senso dell’esistente dal passato al presente, sino al più incerto futuro.
L’Italia di Dante è il titolo di questo volume. Dove somiglia e dove è cambiata rispetto all’Italia di oggi?
L’opera di Dante è un’occasione di riflessione sul movimento del tempo e della storia. E se in questo libro è la geografia ad essere protagonista, stabile per definizione, a ben vedere anche la geografia mostra la sua dinamicità. Anche i fiumi cambiano il proprio corso, in linea con il movimento e l’alterità del tempo. Le situazioni umane descritte da Dante sono presenti ancora oggi: la prepotenza e la violenza del potere, del denaro, l’aggressività diffusa sono aspetti che consegnano la radiografia dell’Italia lacerata in cui viviamo, così come l’esigenza della giustizia, di una vita che abbia un senso anche al di fuori dell’immediatezza del godimento. Allo stesso tempo contempliamo la persistenza della bellezza, la tanta bellezza costruita faticosamente nei secoli e che ancora fa parte della nostra storia, dall’archittetura alle chiese, sino alle opere d’arte successive, che costituiscono un percorso unico nel tessuto d’Italia. Poi c’è il valore degli oggetti, della realtà quotidiana che emerge da certe similitudini dantesche. Frammenti di quotidianità che nella poesia di Dante diventano impronte del nostro divenire.
Professor Ferroni, inutile dire che stiamo vivendo giorni inconsueti, sotto molto aspetti. Vorrei chiederle se sembrano somigliare più a un perfetto contrappasso dell’Inferno dantesco, o alla tanto evocata introduzione del Decameron di Giovanni Boccaccio.
Sembriamo dei dannati fissati al loro posto, proprio come nell’Inferno dantesco, confinati in questa immobilità pericolosa, pagando lo scotto di uno sviluppo insensato, di una politica economica e finanziaria semplicemente folle, che si trascina da più di un secolo, e che per le condizioni in cui ha ridotto il pianeta dovrebbe insegnarci a cambiare rotta. Sembra qualcosa che scioccamente potrebbe definirsi punizione divina, mentre in realtà non è altro che una combinazione perversa della natura, che ci dovrebbe spingere a rivederne l’orizzonte economico e sociale. Ma ho paura che quando tutto tornerà come prima, più o meno, anche noi ricominceremo come prima. Eppure quello che stiamo vivendo è un evidente campanello d’allarme, perché una volta superati certi fenomeni possono anche tornare, e non si può andare avanti così. Se non riusciamo proprio a pensare questo, almeno cerchiamo di pensare ai nostri discendenti, a chi nasce e a chi nascerà. Questa è la cosa più angosciosa, un segno di condanna di quanto male abbiamo fatto negli ultimi anni. Le guerre ce lo avevano insegnato, poi abbiamo dimenticato tutto. Può sembrare lontano, ma attraverso il testo di Dante possiamo inerrogarci anche sul nostro rapporto con l’ambiente, sul muoversi nel mondo. D’altronde non io, ma è il poeta Josip Mandel’stam a scrivere che lo studio della Divina Commedia è “come camminare”, è la concretezza fisica dell’ambiente intorno. Siamo chiamati a salvare le nuove generazioni, speriamo di capirlo in questi giorni difficili. Ma ho i miei dubbi.
Vorrei chiederle di concludere questa nostra conversazione con un suo pensiero su Alberto Arbasino, appena scomparso.
L’ho sempre molto apprezzato. C’erano alcuni suoi aspetti di frivolezza che a volte potevano irritare, ma nella sua furia linguistica e stilistica, nella sua volontà di sapere e volere tutto, ha offerto molto a tutti noi. Ne è chiaro esempio la sua opera più conosciuta, Fratelli d’Italia, che ha vissuto varie redazioni, accresciuta negli anni toccando frammenti infiniti dell’Italia successiva, dal boom al vuoto di inizio millennio. Dunque frivolezza sì, ma in maniera profonda. Lo stesso Arbasino ci ricordava Theodor W. Adorno, in riferimento a Proust, dicendo che la frivolezza è qualcosa di esteriore e salottiero, ma per chi è più intelligente è un modo per sentire l’odore del mondo, ed entrarci fino al collo. Ecco, Arbasino credo lo abbia fatto. Forse esagerando, o forse proprio per questo. A me era molto simpatico.