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Dal discorso d’insediamento del governo Monti all’annuncio delle dimissioni, il messaggio di presentazione e descrizione delle scelte di politica economica è molto cambiato: da “salveremo l’Italia attraverso rigore, equità e crescita” a “il rigore è necessario per la crescita”, per poi ripiegare in “il rigore è necessario, anche senza crescita” e concludere, pochi giorni fa, con “alla crescita dovevano pensarci i governi precedenti”. In effetti, in Italia si è verificato ciò che l’evidenza empirica e la teoria economica (purtroppo non dominante) avevano già rilevato e rivelato, ovvero che l’austerità nella crisi fosse distruttiva, non espansiva, nonostante gli annunci del governo. La fiducia inseguita dalle politiche di contenimento della spesa pubblica e di aumento generalizzato delle tasse non si è dimostrata l’elemento di ripresa auspicato e, anzi, consumi e investimenti si sono ridotti ben oltre le stesse aspettative del governo e dei mercati, generando una caduta del Pil tale da far registrare nel nostro paese la maggiore intensità della crisi rispetto a tutte le altre principali economie industrializzate.
Senza dubbio è vero che la crescita perduta dal 2008 (circa sette punti percentuali in termini reali) non può essere attribuita tutta alle scelte dell’ultimo anno, ma che al contrario vada ricercata in un pensiero economico e in una politica economica sbagliati da diversi anni e che non hanno voluto affrontare i nodi strutturali del declino economico italiano. Tuttavia, basta osservare le previsioni economiche per il 2012 realizzate dallo stesso governo tecnico – nella Relazione al Parlamento di dicembre 2011 e, a quasi un anno di distanza, nella Nota di aggiornamento dei Def di ottobre 2012 –, per comprendere subito come siano stati sottovalutati i “vuoti” della domanda aggregata del paese, su cui hanno messo il carico le politiche di austerità: il contributo della domanda interna alla variazione del Pil reale nel 2012 a dicembre 2011 è stato stimato a -0,7 per cento, mentre a ottobre 2012 era a -4,5 per cento (passando dunque da una previsione del Pil da -0,4 a -2,4 per cento).
Stando alle ultime previsioni economiche (Fmi, Ocse, Bce) la recessione italiana durerà almeno fino al prossimo anno e si stima che il Pil reale pro-capite, ovvero la ricchezza e il benessere economico di ogni residente in Italia, nel 2012 sia diminuito di circa 2.000 euro rispetto al 2007. D’altra parte, sono numerosi ormai gli studi (ad esempio quello della Banca d’Italia) che evidenziano come il livello eccessivo dello spread italiano dell’ultimo anno non sia da attribuire ai fondamentali della finanza pubblica o del sistema economico-produttivo del nostro paese, ma piuttosto al divampare contagioso dei venti speculativi sull’eurozona: in ragione della competitività e dello stato di salute dei conti pubblici, il differenziale di rendimento dei nostri titoli rispetto a quelli tedeschi (bund) dovrebbe attestarsi a quota 200.
Sono altresì noti gli effetti negativi dell’austerità sulla crescita, sull’occupazione e sulla stessa sostenibilità delle finanze pubbliche (vedi Report Fmi ottobre 2012 o Fed dicembre 2012). La Banca d’Italia ha sostenuto che un terzo della decrescita del sistema Italia sia da ascrivere alla congiuntura negativa di carattere internazionale (in cui collocare la debolezza dell’architettura, della governance e della politica economica europea); un terzo si può invece attribuire a “ciò che non si è fatto” in termini di politica industriale, fiscale e sociale (investimenti, redistribuzione del reddito, welfare eccetera) e la parte restante si può spiegare con “ciò che si è fatto”, ovvero i provvedimenti recessivi e depressivi deliberatamente varati dal governo dei tecnici in nome dell’austerità. L’Italia così subisce la crisi due volte. Tutto ciò dovrebbe porre l’attenzione sui veri spread che caratterizzano la crisi italiana: la dinamica dell’occupazione e della disoccupazione, della disoccupazione giovanile e di lunga durata, dell’inattività, dell’inoccupazione, della sottoccupazione e così via. Sono riflessi delle debolezze strutturali del paese, tanto sul versante della domanda (quantità e qualità degli investimenti, scarsa produttività di sistema, dinamica salariale piatta, iniqua distribuzione del reddito e della ricchezza), quanto su quello dell’offerta (scarsa innovazione dell’industria, dei servizi e della pubblica amministrazione, micro dimensione media d’impresa, specializzazione produttiva a bassa intensità tecnologica e contenuto di conoscenza).
Non vanno poi tralasciati i 110 miliardi di tagli alla spesa pubblica negli ultimi quattro anni che hanno interessato lo Stato sociale: sanità, servizi pubblici locali, non autosufficienza, contrasto della povertà, istruzione, infanzia. La somma delle nuove imposte e tasse introdotte dal governo Monti (Imu; addizionali Irpef regionali e comunali; aumento Iva; aumento strutturale accise eccetera), colloca l’Italia al quinto posto per pressione fiscale e al primo per pressione fiscale sul lavoro in Europa. Queste e altre misure di austerità sono state perseguite, a partire dalla legge finanziaria varata appena insediato il governo Monti nel 2011, con il cosiddetto Salva-Italia e poi con i decreti sulla spending review (in due versioni, in realtà si è trattato solo operazioni di taglio lineare della spesa), nonché attraverso i decreti su semplificazioni e liberalizzazioni (sempre evocando la fiducia dei mercati e la speranza di attrarre nuovi capitali), fino al cosiddetto decreto sviluppo, le cui risorse si sono dimostrate fin da subito troppo esigue e mal indirizzate per rilanciare l’economia italiana.
L’ultimo provvedimento è la legge di stabilità 2013-2015, che prevede altri aumenti delle tasse e tagli della spesa, senza alcun mutamento della politica economica, industriale, fiscale e sociale e, perciò, senza nessuna politica di riallocazione (capitali e investimenti) e redistribuzione (redditi e consumi) delle risorse per la ripresa. In conclusione il debito pubblico è aumentato, la disoccupazione è esplosa, i redditi e i consumi sono diminuiti, certo a causa delle politiche imposte dall’Europa a un governo screditato. Eppure, anche l’agenda Monti, così carica di ideologia e così attenta agli interessi costituiti, non ha saputo interpretare le necessità vere di un paese che non aveva e non ha bisogno di rigore cieco, ma di politiche nuove incardinate su sviluppo e redistribuzione. Per questo è necessario costruire un’alternativa alle attuali politiche economiche e sociali. Alternativa a cui la Cgil vuole concorrere con il Piano del lavoro.