L'intervento del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, oggi in apertura del vertice sindacale europeo che si è tenuto a Roma presso la sede della Cgil Nazionale.

Care compagne e cari compagni, care amiche e cari amici,

vorrei iniziare con un sentito ringraziamento alla Confederazione Europea dei Sindacati e ai Segretari e Presidenti dei sindacati europei per la loro partecipazione.

Sappiamo che molti di voi hanno sconvolto le proprie agende per poter essere qui. Vi ringraziamo e pensiamo che ancora una volta con questo appuntamento i sindacati europei e la CES dimostrino che per noi l’Europa è un’importante scommessa. La scommessa dell’Europa politica e sociale, del modello di welfare, di una crescita economica consapevole dell’innovazione, dell’ambiente, del benessere dei lavoratori.

Questo summit si è reso necessario perché, nonostante i solleciti, le richieste, le iniziative del sindacato italiano e del sindacato europeo e, immaginiamo, dopo Copenaghen, dei singoli sindacati, dei Paesi europei, nessun cenno di dialogo sociale si è manifestato dalla Presidenza italiana del Semestre.

Siamo ormai a metà del Semestre e non si è avuta nessuna possibilità di discutere l’agenda, di quali siano le priorità in tema di occupazione e lavoro.

Abbiamo ripercorso con la memoria i precedenti. Ci risulta che ce ne sia uno solo, non a caso era il periodo del liberismo europeo, quello di Madame Thatcher.
Eppure nelle dichiarazioni fondamentali dell’Unione Europea il dialogo sociale è sempre premessa e sostanza del governo dell’Unione stessa.

Il voto del 25 maggio, nel giudizio della Confederazione Europea, è stato un pesante campanello di allarme, non solo per le derive nazionaliste e xenofobe, ma per la disaffezione diffusa, anche nel nostro Paese, dalla partecipazione al voto europeo.

Una presa di distanza da un’Europa che ha deluso larga parte del mondo del lavoro, perché l’Unione Europea rimane l’area in maggiore difficoltà nel mondo industriale, perché l’impoverimento è cresciuto, la disoccupazione - giovanile e non - è sempre più diffusa, perché la diseguaglianza domina nei Paesi e tra i Paesi.

Il modello del rigore europeo ha tradito il sogno della realizzazione europea. Quel sogno evidenziato dalla Carta di Nizza, dal Manifesto di Ventotene, quel sogno che ha inventato il vero salto dal secolo della guerra verso la modernità, che ha delineato il ruolo degli Stati, in comunità, per il welfare, il sostegno e il fondamento della mediazione tra capitale e lavoro.

Il governo politico dell’economia: è questo il sogno interrotto, che spiega perché quelle elezioni sono un campanello d’allarme serio.

Non abbiamo la sensazione che questo tema sia lucidamente presente, nella composizione della Commissione.

Troppo rapidamente è ripreso un dibattito che ha messo le elezioni tra parentesi e riproducendo la continuità con la gestione della crisi di questi anni.

I sindacati nazionali e il sindacato europeo non sono abituati al solo descrivere i problemi, mettono in campo le loro proposte.

Per noi dialogo sociale non è la passerella, né i solo tre minuti di intervento in occasione dei vertici. È la costruzione di un’agenda che affronti il tema dell’occupazione, del lavoro, del buon lavoro.

Il dialogo sociale per noi muove dall’idea che il lavoro decente, il buon lavoro, restano la condizione essenziale per immaginare una rinascita europea nello scenario globale.

L’illusione che finanza ed esportazioni fossero sufficienti al “nuovo sviluppo” è sotto gli occhi di tutti nel suo fallimento.

Dagli Stati Uniti al Giappone le scelte sono state l’investimento in economia reale, politiche industriali, restituzione e aumento del reddito dei lavoratori.

Mentre questo avveniva oltre Oceano, in Europa si è continuato e si continua a discutere del rigore e dei compiti a casa, di un Trattato della moneta che influenza tutta l’Unione Europea, un Trattato che non prevedeva potessero esserci recessione e crisi e che si strutturava sul controllo del debito indebolendo, se non cancellando, politiche espansive.

Da qui parte la proposta, il piano della Confederazione Europea dei Sindacati.
Oggi a Roma vogliamo ribadirlo, insieme, alla vigilia del vertice europeo su occupazione e crescita.

Uno dei tanti vertici, che alla luce della dichiarazione di queste ore non appare decisivo, come non lo sono stati tanti altri.

Mai bisogna rinunciare, invece, a rendere produttive le discussioni, a cambiare verso davvero alla politica europea.

Cosa proponiamo:
Dieci anni di politica di investimenti, 2.500 miliardi, il 2% del PIL europeo.
Investimenti che rispondano alla creazione di occupazione, che uniscano innovazione e welfare, buona occupazione e contrasto alla povertà, politica industriale e qualità delle infrastrutture.
Dove innovazione è per noi - come si disse a Lisbona - economia della conoscenza, senza la quale non c’è innovazione, e green industry, senza la quale non c’è rispetto e futuro del territorio. È qualità del territorio e del vivere, è alta tecnologia che si sposa con la qualità del vivere delle persone.
Investimenti che generano buon lavoro e non precarietà, che spostano il peso fiscale dal lavoro alle ricchezze.

Come prevediamo che si finanzi?
Noi pensiamo ad un insieme di strumenti: dalla tassa sulle transazioni finanziarie alla definizione di un fisco europeo; dalla tassazione delle grandi ricchezze ad una gestione dei fondi europei finalizzata e governata allo scorporo degli investimenti dal patto di stabilità; dal tema dell'infedeltà fiscale alla lotta ai paradisi fiscali.
È necessario togliere opacità al confronto sul TTIP, nuovo accordo commerciale, che deve considerare e rispettare il lavoro e che non può affidare alle imprese multinazionali maggiori poteri di quelli degli Stati.

Abbiamo sentito che il futuro Presidente della Commissione Juncker parla di 300 miliardi in 3 anni. Seppur meglio dell'assenza di scelte della Commissione precedente sono troppo pochi per poter cambiare l’Europa.

Pochi e inadeguati alla fase che stiamo vivendo.

La variante positiva è che la discussione sugli investimenti pubblici è tornata ad avere cittadinanza.

La scelta della Francia alla vigilia della legge di stabilità indica che il sistema non regge più.

Anche per questo è urgente proporre di mettere al centro delle scelte europee un Piano per l'Occupazione.

Ancora, alla Commissione e agli Stati europei vorremmo dire che la ripetuta insistenza a interferire sui modelli di contrattazione è lesiva delle relazioni e dell'autonomia dei soggetti negoziali.

Si sposa con un'idea dirigista di cui vediamo i tratti anche nel nostro Paese., che pensa che impoverendo il lavoro si affronti meglio il rigore e l'austerità.

Troppo spesso la Commissione europea è intervenuta al contrario, liberalizzando il dumping sui salari invece che favorendo una competizione positiva.

Come si può immaginare di intervenire sui salari quando neanche si concorda in Europa sul fisco, sulle regole bancarie, sulla finanza?

La nostra prospettiva è una contrattazione, nell'autonomia delle parti, sempre più europea.

Se la Commissione vuole contribuire, pensi al salario minimo europeo per tutti coloro che operano nel libero mercato europeo, non favorisca o promuova il dumping che purtroppo spesso favorisce divisioni nel lavoro e delocalizzazioni distorte.

La Confederazione europea farà la sua parte rafforzando i CAE e la condivisione tra sindacati, ma vorremmo uscire da un'Europa che ci costringe alla difesa per costruire e partecipare a un nuovo new deal europeo.

Siamo profondamente europeisti, e per esserlo dobbiamo cambiare l'Europa.
Vi è, infine, l'occasione per condividere la situazione dell’Italia, abbiamo detto, del non confronto sul programma per il Semestre europeo in Italia. Il nuovo governo si era presentato all'insegna del superamento della rappresentanza e del sindacato in particolare.

In questi ultimi giorni si è parlato di una convocazione prevista per domani.

Speriamo sia un serio ripensamento, perché l'idea che sottende oggi la proposta del governo sul Jobs Act è, invece, un'idea di diritti poco estesi in cambio di una grave riduzione dei diritti per chi oggi ha un lavoro stabile. Si accompagna ad una politica di ridimensionamento salariale, di blocco dei contratti, di processi di crisi e ristrutturazione basati sulla cancellazione della contrattazione aziendale che non può essere mascherata dalla riduzione della tassazione per un'area di lavoratori.

L'Italia come l'Europa ha bisogno invece della cancellazione della precarietà, ha bisogno di investire sul lavoro.

Siamo preoccupati che in realtà l'intenzione del governo sia di ridurre i confini dell'azione sindacale alla sola contrattazione in azienda su materie e deroghe definite dal Parlamento.

In questo il nostro governo si rivela uno scarso conoscitore anche delle scelte dei Paesi europei, che sul mercato del lavoro, sostegno al reddito, protezioni sociali, sostengono soluzioni condivise tra le parti.

Come sempre siamo pronti al confronto e altrettanto siamo pronti al conflitto per cambiare scelte non condivise.

Come sempre avviene, il legame tra le politiche nazionali e quelle europee è fortissimo.

Noi vorremmo che al “ce lo chiede l'Europa” si sostituisse il “lo facciamo in Europa”. Vorremmo un vero Piano del Lavoro, della sua dignità e della sua libertà.

Per la sua attualità, desidero riproporre una didascalia dalla Dichiarazione di Filadelfia del 1944 dell’ILO. “Il lavoro non è una merce”.

Questo è il messaggio che da qui, tutti, vogliamo mandare al Presidente del Semestre Europeo, al vertice di Milano, alla Commissione uscente ad entrante, ai governi europei, che tradurremo nella risoluzione condivisa.

Grazie ancora di essere qui e buon lavoro a tutti e tutte noi.