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Se vogliamo davvero comprendere come è costruita l'industria europea, l'unità di analisi non può più essere quella nazionale, né solo quella dell'impresa come unità giuridica. Bisogna considerare l’impresa nella sua struttura produttiva reale e bisogna considerarla nella sua distribuzione territoriale, che è una distribuzione che travalica i confini nazionali.
Il processo di frammentazione è avvenuto in Europa a partire dalla costruzione del sistema del mercato unico europeo, dall’integrazione dell’Unione Europea. Attraverso la possibilità della piena libertà di movimento dei capitali si mette in moto un gigantesco processo di ristrutturazione industriale che vede alla fine, attraverso acquisizioni e fusioni, la costruzione di pochi attori che controllano intere catene produttive.
Questi pochi attori diventano dei veri e propri regolatori del sistema sociale del lavoro. E’ vero che continuano ad esistere differenze di regolazione previste dalle leggi e dai contratti: le norme su lavoro e contratti in Italia sono differenti da quelle tedesche e da quelle francesi; ma - accanto a queste differenze - si sviluppa un processo di regolamentazione che avviene seguendo il potere che controlla queste catene produttive; un processo di regolamentazione che riguarda tutta la struttura del lavoro e che agisce in modo particolarmente efficace perché investe proprio il funzionamento quotidiano della struttura del lavoro.
Nel settore dell’automobile, ad esempio, opera un numero ristretto di attori, che controllano un'intera filiera produttiva. Controllano nel senso che i margini di ritorno sull’investimento per l’impresa che controlla il processo devono essere costruiti come margine di ritorno su tutta la filiera produttiva. Quindi l’azienda che è al centro del controllo del processo, che questa sia Volkswagen, Audi, Ford o qualunque altra, è un impresa che calcola il proprio rendimento dovendo controllare quello che accade in ogni pezzo della filiera produttiva, a prescindere che sia di proprietà diretta o che sia invece un fornitore.
Chi partecipa alla filiera produttiva può essere un fornitore con un altissimo livello di specializzazione - e quindi con maggiori margini di potere contrattuale - o essere un fornitore di servizi con meno valore aggiunto, e quindi con un minor potere contrattuale; ma, qualunque sia il suo status, deve fare i conti con gli elementi di performance di tutta la filiera produttiva che chi controlla il processo ha bisogno di mettere in moto.
Questo significa, ad esempio, che i classici elementi che riguardano le condizioni di lavoro, come tempi, ritmi e condizioni lavorative, sono sotto il controllo del processo. Si generano in questo modo nuove forme di disciplinamento del lavoro, che travalicano le possibilità di controllo da parte dei sistemi giuridici esistenti nelle diverse nazioni.
Se si aggiunge che la piena possibilità di movimento dei capitali consente che il processo di integrazione avvenga regolando in maniera fine i diversi pezzi del processo, può accadere che un Paese, la Germania ad esempio, detenga la parte finale del processo produttivo, con le attività a maggior valore aggiunto, mentre in altri Paesi siano localizzate le altre parti del processo produttivo. E può accadere che questa ripartizione del processo sia costruita in modo tale da poter sfruttare al massimo le differenze esistenti nei diversi sistemi di regolazione, dal punto di vista salariale, lavorativo, dei trattamenti fiscali. Ne risulta una situazione in cui la frammentazione del lavoro riguarda i singoli settori produttivi e la loro distribuzione territoriale, creando un assetto di profonda diseguaglianza.
Queste diseguaglianze, inoltre, non possono più essere ricondotte a dei limiti precisi - come Italia contro Germania - perché le realtà sono molto più differenziate (Italia del Nord e Italia del Sud, Emilia Romagna e Veneto) ed ognuna di queste realtà si integra in modo diverso col sistema industriale europeo.
Lombardia orientale, Veneto ed Emilia Romagna sono integrate nel sistema produttivo tedesco
In Italia per esempio il Nord è diviso a metà, con Lombardia orientale, Veneto ed Emilia Romagna che sono integrate nel sistema produttivo tedesco, mentre la restante parte del Nord è integrata nel sistema produttivo francese. Al Sud c'è una situazione a macchia di leopardo, con alcuni punti di eccellenza ed una condizione media che ad oggi è al di sotto della media nazionale. Questo processo di frammentazione è l'altra faccia del processo di costruzione di un sistema europeo industriale integrato. Questo è importante, perché se è così, allora tutta l’impostazione dell’attore sindacale deve trarne delle conseguenze, perché può avere davvero efficacia solo se è in grado di affrontare una negoziazione in termini del flusso produttivo, in termini di catena produttiva.
Se si considera una catena produttiva come quelle che abbiamo oggi in Europa, ci sono alcuni settori della catena produttiva in cui la singola impresa ha dei margini di ritorno che sono intorno o sotto l’1%. E' chiaro che quest’impresa non ha i margini per fare investimenti, ma nemmeno l'autonomia necessaria a confrontarsi in un negoziato con le rivendicazioni sindacali.
La frammentazione e la riorganizzazione diventano un muro, con il quale occorre fare i conti.
Questo per quanto riguarda i processi reali; accanto ai quali si sono verificate importanti trasformazioni dal punto di vista politico e giuridico/contrattuale. La novità più importante è che si è spostato nel corso del tempo l’asse d'attenzione dei governi. In precedenza la priorità era quella di concludere accordi di tipo neocorporativo, che avevano come oggetto la regolazione della dinamica salariale complessiva a livello nazionale.
Nel momento in cui si è costruito il nuovo sistema integrato europeo, è cambiato il regime di competizione tra le imprese, che non è più basato sulla regolazione della dinamica dei salari a livello nazionale, ma sul controllo che ogni singola impresa o sistema di imprese è in grado di esprimere sui comportamenti e le prestazioni dirette dei lavoratori che appartengono a quell’impresa o a quel sistema.
La dimensione prevalente non è più nazionale. Ogni impresa o sistema di imprese ha ora bisogno di mettere al centro il disciplinamento concreto dei comportamenti e delle prestazioni dei lavoratori, avendo come termine di paragone quello che accade in un sistema integrato europeo e in alcuni settori, come quello dell’auto, in un sistema direttamente globale.
Questo introduce un’ulteriore elemento di frammentazione del mondo del lavoro, perché ogni gruppo di lavoratori che appartiene ad un determinato sistema d’imprese entra in competizione diretta con quello di un altro sistema di imprese.
Questo introduce elementi non di solidarietà, ma di competizione tra i lavoratori. Ad esempio, quando si tratta dei costi del lavoro o di decidere se sopravvive un posto di lavoro piuttosto che un altro, avviene una competizione diretta, nella quale viene messa a confronto prestazione con prestazione.
Di fronte ad un processo di disgregazione e frammentazione di questa natura, è chiaro che ci sono una gamma di problemi da risolvere. Il primo riguarda la necessità di cambiare impostazione mentale e di pensare che bisogna fare i conti con questi sistemi di imprese, superando in larga misura la frammentazione precedente nazione per nazione, Paese per Paese.
In questo ci viene in aiuto la struttura del sistema industriale europeo. Perché è vero che c’è la globalizzazione, però, in concreto, il sistema industriale europeo è, anche dal punto di vista dei flussi di merci che girano, molto centrato sull’Europa. Larga parte dell’attività avviene all’interno dell’Europa, e quindi non è necessario fare i conti con un sistema in cui tutto è spolverato per tutto il mondo; il sistema si è riorganizzato su scala globale, ma ha una sua consistenza - commerciale, economica, industriale – molto concentrata all'interno dell’Europa. Questo non vale ovviamente allo stesso modo per tutti i settori, ma mediamente è questa la realtà.
Vi è quindi la base materiale per poter considerare l’Europa come una scala effettiva sulla quale potere costruire dei sistemi di regolazione: sia con riferimento alla contrattazione, sia alla costruzione di leggi, di interventi regolativi che riguardano tutti. Non è qualcosa fuori dalla possibilità concreta e materiale di intervenire.
Questo è il primo punto che possiamo considerare come elemento positivo.
Il secondo riguarda come rappresentare gli interessi. Qui siamo di fronte a differenze molto forti tra diversi Paesi, io parlerò dell’Italia. Credo che in Italia uno dei grossi problemi, accanto a quelli citati e che riguardano tutti i sindacati, riguardi il come si costruisce la rappresentanza nelle aziende. Abbiamo avuto in Italia un’esperienza, ormai sepolta, in cui la rappresentanza degli interessi era una rappresentanza sociale diretta: i lavoratori non sceglievano il loro rappresentante in base a delle distinzioni di tipo politico/ rappresentativo, come si fa per il Parlamento.
Negli ultimi decenni invece siamo passati ad un sistema che progressivamente ha dato prevalenza all’aspetto della distinzione sulla base di liste. Quindi la rappresentanza diretta viene mediata attraverso delle liste.
Si dirà che questo è parte dell’esigenza democratica. Vero. Ma se, in un quadro di forte frammentazione della struttura industriale, si attribuisce meno rilievo alla rappresentanza sociale diretta, la capacità del sindacato di tenere conto della diversa articolazione dei lavoratori, che è sempre più varia di quella precedente, subisce un drastico ridimensionamento. Si rischia di avere una rappresentanza nelle imprese che non è in grado di essere effettivamente ed efficacemente rappresentativa delle articolazioni dei tipi di lavoratori che operano nel ciclo produttivo, che vanno dal nuovo entrante con una situazione instabile, a quello che invece è già in piena carriera o ha addirittura raggiunto il vertice della sua carriera occupazionale.
Riarticolare la rappresentanza. E farla crescere
Se non si riesce a riarticolare questa rappresentanza, si fatica a rimettere in collegamento i diversi settori del mondo del lavoro. Il problema è da un lato far crescere la capacità di rappresentanza lungo questa nuova catena produttiva, dall’altro di rimettere in moto la capacità di rappresentare i diversi segmenti del lavoro, mettendo tra parentesi quegli elementi che invece sono riconducibili ad una dinamica classica di tipo politico, piuttosto che di rappresentanza sociale diretta.
Questo apre dei problemi in Italia, ad esempio come costruire una piattaforma contrattuale, come la si vota: credo che questo sia uno dei punti che dobbiamo affrontare.
Ultimo problema. Se occorre cambiare l’unità di analisi e di azione, cercare di affrontare la struttura produttiva nelle sue nuove articolazioni che sono sovranazionali o quantomeno che abbracciano più Paesi, questo comporta di abbandonare le attività economiche meno premianti, a minor valore aggiunto e sostenere un upgrade di tutta la struttura produttiva verso attività a sempre più alto valore aggiunto?
Vorrei mettere qualche nota di allarme rispetto a quest’impostazione: i settori ad altissimo valore aggiunto esistono perché gli altri, quelli a minor valore aggiunto, permettono loro, grazie alla distribuzione di potere che è diseguale tra diversi attori, di godere di condizioni più favorevoli.
Questo riguarda gli attori dentro le singole catene produttive, ma anche i rapporti tra Paesi: dire oggi che tutta l'Europa dovrebbe fare come fanno i campioni tedeschi dell’alta tecnologia, o che tutta l'Italia dovrebbe fare come le imprese dell’Emilia Romagna a maggior valore aggiunto, è una bella cosa; ma bisogna considerare che quelle imprese stanno utilizzando delle catene di fornitura in cui funzionalmente ci sono altri che lavorano in altre condizioni per permettere loro di poter avere un maggior valore aggiunto. Nulla vieta di poter pensare che si possa mettere mano a tutto questo e riorganizzarlo, ma questo non è un processo che può avvenire solo per via di mercato. E’ un processo che può avvenire di fronte al congiungersi di un’azione sindacale che interviene su questo punto e un'azione pubblica che si assuma la responsabilità di dare delle risposte di fronte a questa pressione. Perché se cosi non è, il processo attuale in corso è un processo di forte polarizzazione e segmentazione. I punti più alti non producono per loro caratteristica naturale un processo di inseguimento e imitazione; anzi è l’opposto, i punti più alti disarticolano progressivamente, in modo ancora più forte, tutto il resto della catena. Oggi è quello che sta avvenendo.
Quindi se si sostiene giustamente che per uscire da questa crisi bisogna ripensare come produrre, quali prodotti bisogna fare, con quale sostenibilità e così via, occorre anche avere la consapevolezza che è necessario fare i conti con una distribuzione del potere, nell'ambito della struttura industriale europea, che è diseguale e che vuole mantenere questa diseguaglianza.