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La storia della cittadinanza democratica moderna prende avvio da un evento fondamentale: la fine del lavoro servo e schiavo. La prima conseguenza di questa conquista di eguaglianza e di civiltà è che nella democrazia moderna i cittadini devono prendersi cura del proprio sostentamento direttamente e per questo si riduce il tempo disponibile per la cura della vita politica e degli affari pubblici.
La seconda conseguenza è che se per gli antichi la democrazia era il governo dei poveri, per i moderni essa è governo dei molti che - né troppo ricchi, né troppo poveri - tengono vivo il mercato e la produzione delle merci e, insieme, il sistema politico. Lo stato della società economica, quello della società politica sono tra loro direttamente connessi e la democrazia è tanto più solida quanto più la sua classe media è ampia e sicura.
Se nell’antichità c’era turbolenza perché evidentemente i poveri cercavano di superare la loro condizione usando se necessario misure punitive verso i pochi ricchi, nella democrazia dei moderni c’è più possibilità di stabilità, perché l’ambizione della classe media è di conservare il proprio stato. Ma è questa ambizione soddisfatta dalle forze spontanee del mercato? In questo contributo vorrei mostrare come la solidità della classe media e della democrazia siano legate a filo doppio, e come il rafforzamento della seconda richieda l’intervento del pubblico più che la sua dismissione.
La narrazione canonica che viene trasmessa nelle nostre università parla di due modelli di costruzione dei sistemi sociali e politici: uno inclusivo e aperto, uno estrattivo e chiuso. Il primo corrisponde grosso modo alle democrazie capitalistiche occidentali ed è basato sulla diffusione del potere politico, la separazione dei poteri e l’autonomia del potere giudiziario che assicura il godimento dei diritti individuali e la certezza del diritto, e l’esistenza di una larga classe media che tiene alto il consumo e la dinamica sociale.
Questo modello si basa sull’idea che sguinzagliando le potenzialità e le opportunità su tutto il bacino della popolazione, ciascun cittadino avrà più possibilità di innovare e creare, e ciò renderà l’intero sistema più dinamico. Nell’altro modello invece, che oggi grosso modo corrisponde al capitalismo asiatico, la logica che governa la società è estrattiva delle risorse ed esclusivista, ovvero accumula in verticale e punta a produrre un’oligarchia forte che ha tutto l’interesse a restare coesa per dominare chi sta sotto e ad avere una classe media non troppo ampia.
Gli economisti e gli scienziati politici occidentali, non solo americani, ritengono che per sostenere il modello inclusivo e aperto sia fondamentale favorire la crescita economica e in particolare stimolare l’innovazione, la quale avviene distruggendo quel che c’era per sostituirlo con prodotti più efficienti o adatti. “Distruzione creativa” è il termine reso celebre da Joseph A. Schumpeter (Capitalism, Socialism and Democracy, Harper Torchbooks, 1942) e usato per designare questa fatica di Sisifo che senza posa crea-distrugge-crea (Karl Marx aveva del resto sostenuto che il capitalismo non può che essere rivoluzionario e creativo di nuove forme di produzione e di nuove tecnologie).
Il problema è che, poiché non ci può essere crescita illimitata, occorre ricreare sempre le condizioni della crescita. Qualche volta le guerre aiutano, altre volte occorre imitare l’azione demolitrice dei campi di battaglia ad arte e in maniera pacifica. Per alimentare la distruzione creativa in tempi di pace, la società deve essere orizzontale e aperta a tutti, poiché da ciascuno deve prendere quel che meglio serve a tenerla in moto innovativo: più largo è il bacino dei competitori, più aperto è l’agone, più l’esito generale potrà essere di miglioramento, anche se molti perderanno perché sostituiti da sempre nuovi attori.
Questa visione, che rassomiglia al mito della prateria e sposta sempre oltre il confine del possibile e dello sfruttabile, ha sedimentato l’ideologia della democrazia capitalistica e giustificato la sua esportazione nel mondo. L’idea centrale di questa visione schumpeteriana è che le disfunzioni (i paesi che non crescono) sono la conseguenza dei loro sistemi istituzionali, che non sguinzagliano potenzialità e non sostengono la distruzione creativa.
Che lo Stato decida di ritirarsi dalle politiche pubbliche è, dunque, un bene, perché le disfunzioni del sistema vengono dal perseverare nell’idea che il pubblico debba svolgere un ruolo redistributivo; l’errore sta nel fatto che l’intervento dello Stato blocca il ricambio delle energie e interferisce con la giustizia via mercato, la più imparziale. Questo era del resto il senso del famoso documento sulla “governabilità” stilato dalla Trilateral Committee nel 1975 con il titolo The Crisis of Democracy.
Quel che lo Stato deve fare, si diceva in quel documento, è mitigare gli effetti della lotta per coloro che la perdono senza pretendere di governare la lotta stessa, magari con l’obiettivo che una larga classe media si consolidi. La classe media si rafforza se si sorregge sulle proprie forze. Si squadernano qui due visioni di democrazia: uno che chiameremo dell’individualismo della prateria e l’altro dell’individualismo democratico. La vittoria del primo sorregge oggi il mito della “distruzione creativa”, con una forma di democrazia attenta ai pochi individui esemplari vittoriosi (l’imprenditore, il manager, lo start-upper) che diventano role model per tutti e sono inutilmente imitati, visto che il modello non prevede un ampio bacino di vincitori; una società poco attenta al sostegno della classe media e convinta che anche questa debba farcela con le sue proprie forze.
In quasi tutti i paesi occidentali, e in alcuni (come l’Italia) più che in altri, la classe media ha subito un processo di dimagrimento negli ultimi due decenni e in alcune società ha cessato di essere quel largo e solido cuscino tra i pochi veramente ricchi e i pochi veramente poveri. Essa tende non solo a essere sempre meno affollata, ma è anche una condizione sempre meno associata alla tranquillità psicologica rispetto alla conservazione di un decente tenore di vita.
La classe media comincia a essere per troppi un privilegio. E questo è un paradosso stridente, visto che la sua condizione mediana si è affermata proprio contro i privilegi di classe e per garantire al piú gran numero, con il lavoro e la professione, quella solidità di vita materiale e di riconoscimento sociale che nell’antico regime era solo di pochissimi. La classe media é per questa ragione spina dorsale della cittadinanza moderna.
La crescita del numero dei lavoratori poveri e la decrescita della classe media sono un monito a chi governa a dubitare dell’efficacia del modello della prateria. Come hanno scritto A. Atkinson e A. Brandolini (On the identification of the ‘middle class’, in Society for The Study of Economic Inequality, 2011), essere classe media è un affare complicato che il reddito da solo non spiega: perché avere aiuto domestico, affittare o possedere una casa decente, avere un lavoro ben retribuito o condurre un’attività lavorativa autonoma, non si traduce sempre e dovunque in una qualità della vita associabile con la condizione della classe media.
La classe media non è solo una categoria economica, dunque, ma una condizione psicologica e politica: basata sulla “tranquillità dell’animo” o l’essere confidenti che si può non soltanto vivere decentemente oggi, ma programmare un futuro altrettanto, non meno, sicuro. Se si calcola la classe media solo in base al reddito non si coglie questo malessere effettivo, sociale, morale e psicologico. Che invece viene registrato da tutti i sondaggi sulle aspettative per il futuro e le preoccupazioni associate alla stabilità della condizione lavorativa propria e dei propri figli.
Per cui possedere una casa può comportare un rischio di povertà, perché i salari e gli stipendi si erodono o scompaiono, e in aggiunta perché i servizi sociali sono sempre meno sostenuti dalle politiche pubbliche. Quel che resta della classe media è quindi per molti il benessere della classe media di ieri. Viviamo sulle spalle dei nostri vecchi o di chi ci ha preceduto. Con le nostre fatiche non costruiamo più, ma sopravviviamo, spesso a malapena.
Va da sé che il maggior nemico del governo democratico è una società nella quale la ricchezza si concentra in una porzione ristretta della popolazione, mentre la larga maggioranza è composta da chi vive nella povertà effettiva o nel timore di diventare povero. Tra i fattori che contribuiscono a rendere la classe media sofferente vi è il declino dello Stato sociale: larghe fasce di cittadini devono far fronte al dimagrimento (in alcuni paesi estremo) dei servizi sociali e il trasferimento sul reddito del costo di prestazione di base: la sanità, la scuola, l’assistenza ai bambini e agli anziani.
Dalla capacità a far fronte a queste che sono necessità, non opzioni, si misura l’insufficienza o, all’opposto, la robustezza delle politiche dei governi democratici. Quali conseguenze può avere questo restyling sociale? Anche i più devoti del modello della prateria dovrebbero avvedersi che il sistema capitalistico regge a un patto: che sia e resti inclusivo e aperto, e poi che il dinamismo non sia illusione o mito. Ovvero che non ci sia tanta diseguaglianza da rendere l’impegno individuale futile in partenza, perché il sistema si regge se la fiducia che gli individui hanno che il loro impegno sia efficace non si riveli un’illusione, un falso.
Il problema delle democrazie capitalistiche è pertanto l’aumento vertiginoso della diseguaglianza economica, che si può tradurre in generalizzata sfiducia nelle promesse della democrazia (libertà per tutti e ampio benessere). Il declino della legittimità del sistema politico e del modello capitalista espansivo e aperto vanno insieme, perché chi accumula più potere sociale ed economico investe in politica, usa i media per influenzare l’elettorato e usa i soldi e la promessa di privilegi per portare rappresentanti amici in Parlamento; in sostanza per far passare le leggi che più aiutano. Più potere economico, più potere di voce, più potere di influenza, più potere politico. Il declino dell’eguaglianza e il declino del governo della legge e della democrazia parlamentare vanno insieme.
*Titolare della cattedra di Scienze Politiche alla Columbia University di New York