PHOTO
Una, se non la principale ragione della crisi civile, sociale, economica e quindi anche politica dei nostri tempi, consiste probabilmente nell'aver scambiato i mezzi con i fini, a cominciare dalla pretesa centralità dell'impresa al posto di quella vera, che non può che essere esclusivamente riconosciuta alla persona umana; cioè all'individuo nel suo contesto sociale più ampio, compreso quello del lavoro associato e, in particolare, della sua forma più nota e forse più importante: l'impresa.
Impresa che, soprattutto nella sua dimensione transnazionale, ha ormai pericolosamente sussunto la società, la politica e lo stesso Stato nelle sue articolazioni, prefigurando un nuovo totalitarismo; in cui tutto è ricondotto a un suo preteso ed esclusivo interesse, che trascende, arrogantemente e stupidamente, persone, popoli, nazioni, e lo stesso ambiente geofisico. Un pericolo peggiore dell'hegeliano Stato etico: impresa etica assurta a nuovo Leviatano.
Prima condizione, dunque, per il rovesciamento del paradigma, è quella di smascherare l'egemonia culturale che vuole l'attuale distopia come condizione naturale, falsamente a-ideologica, nascosta sotto la pretesa efficienza del "mercato", alludendo a una libera concorrenza mai esistita. Contrastare, regolamentare e democratizzare il nuovo Leviatano, riconducendolo a "ragione", è il compito prioritario della politica, delle istituzioni e dello stesso sindacato nelle loro organizzazioni nazionali e internazionali.
Lo sviluppo sociale e civile, spesso non coincide con quello meramente economico, anzi non di rado si trova con esso in correlazione, se non in causazione, negativa. Un concetto, beninteso, che non ha nulla a che vedere con la cosiddetta "decrescita felice", un concetto elaborato da economie sviluppate. "L'ideale – scriveva Caffè – è quello di costruire un mondo in cui lo sviluppo sociale e civile non rappresenti il sottoprodotto dello sviluppo economico, ma un obiettivo deliberatamente perseguito".
E ancora, sempre a giudizio di Caffè: "L'aumento del Pil senza una diminuzione della disoccupazione non è che una mera indicazione statistica senza alcun significato". Ma anche un "aumento" dell'occupazione, rilevato con criteri discutibili che considerano "occupazione" lavori parziali, precari e casualmente intermittenti e in condizioni economiche, normative e ambientali mortificanti, segna un regresso e non un avanzamento civile. Va riconquistata una concezione dell'impresa come "bene comune", secondo la visione olivettiana.
Mentre il "lavoro" va inteso nel senso più ampio, in cui "ogni cittadino" ha il diritto e il dovere sociale "di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società", come prevede la nostra Costituzione (art. 4, c. 2).
Se è vero che "le libertà si garantiscono reciprocamente", anche se non ci esimono dalle nostre responsabilità" (Caffè parlando di Luigi Einaudi), che "tra la servitù e l'anarchia, la libertà che è l'ideale dell'uomo, è solo la libertà che crea la libertà" e che "la più solida democrazia nasce dalla molteplicità delle democrazie" (Guido Calogero), non è escluso che il livello generale di democrazia di un Paese si attesti, purtroppo, su quello più basso di una di quelle sue dimensioni, sia quella aziendale (e sindacale), economica, sociale o politica, che si trascinano, solidalmente, verso il basso oppure verso l'alto.
Dunque, un mezzo, seppure di grande rilevanza come l'impresa, non può avvalorare uno sviluppo sociale, civile e democratico se tale non lo è a sua volta. In caso contrario, lo mortifica e lo trascina al regresso. Arricchisce forse "materialmente", ma non "spiritualmente" il Paese, così come le persone che in esso vivono e lavorano. Come ha più volte affermato Norberto Bobbio, mentre la meta non è unica ed è solitamente inaspettata, la via è una sola: quella democratica; mentre Calogero ci ricorda che "senza eliminazione degli squilibri di potenza economica non c'è mai vera libertà politica, e senza la garanzia delle libertà politiche non c'è neppure la possibilità di sapere se la giustizia economica sia reale o illusoria".
Si conferma così la convinzione di Bruno Trentin che "anche nella storia del cosiddetto conflitto retributivo e distributivo la vera posta in gioco è stata la libertà". Tutto ciò pone un problema alla scienza economica che solitamente considera il lavoro umano, a livello macroeconomico e ancor più microeconomico, alla pari se non addirittura inferiore al capitale come "fattore di produzione"; mentre il lavoro umano, nel senso più ampio, prima ricordato, insieme all'apprendimento, è il solo fattore storicamente originario, seppure associato, nel presente, al capitale reale che non è altro, a sua volta, che lavoro passato.
La pretesa centralità dell'impresa ha indotto molti giuslavoristi ad arrendersi progressivamente alle pretese sempre più esigenti del dominante mercato oligopolistico; riducendo di converso diritti e condizioni dei lavoratori sino, si può dire, ad alienarsi dalla loro stessa disciplina e ragion d'essere: quella di difendere i diritti della parte più debole.
Questa grave inversione di un mezzo, seppur importante come l'impresa, con il fine, e cioè con la crescita e la fioritura della persona, e – per quanto è possibile – la sua felicità, non solo e non tanto con una maggiore disponibilità di beni e servizi utili, ma grazie alla realizzazione della sua differenziata e irripetibile unicità, innanzitutto nel lavoro dignitoso, ha causato danni in più campi, tutti poi convergenti in quella crisi di civiltà più generale di cui si parlava all'inizio.
La fioritura e la crescita, o al contrario l'arresto o l'involuzione, della persona, nelle sue differenziate potenziali "capacità" (Amartya K. Sen e Martha Nussabaum) – convergono ormai neurologi, psicologi, educatori e filosofi morali – cominciano addirittura nella prima gestazione e seguono l'intero percorso esistenziale. Il processo di sviluppo personale deve potersi quindi svolgere in continuità e coerenza, senza gravi involuzioni; in un contesto di responsabile libertà, autonomia e socialità.
Segna invece un arresto, se non una grave involuzione di tale percorso esistenziale, non solo la mancanza o anche la rinuncia del/al lavoro, ma la stessa condizione di lavoro che si declina, da sempre storicamente, in un ambiente di costrizione gerarchica e autoritaria e che, dopo un periodo di conquistata parzialissima democrazia industriale ed economica, sta da tempo regredendo nell'attuale mortificante paradigma economico generale e ancor più di economia aziendale, schiacciata sull'immediato presente senza alcuna visione del futuro e in un clima di diffusa casuale precarietà.
Le crisi economiche, anche le più gravi, non devono arrestare il progresso civile e sociale, né tanto meno mettere in discussione i principi dello Stato democratico di diritto, legato inevitabilmente a quello sociale. È la grande lezione che ci viene dal New Deal di Franklin D. Roosevelt, che contrastò l'oligopolio delle corporations rafforzando il potere federale e rianimando il sindacato con cui strinse una solida e permanente alleanza.
Un'eredità accolta, nel secondo dopoguerra, dal governo laburista di Clement Attlee e dai nostri padri costituenti. Una lezione che, almeno dagli anni ottanta della controffensiva neoliberista, si è progressivamente dimenticata, scambiando misure congiunturali con riforme regressive, a cominciare da quelle sul lavoro. E la centralità della persona è ben argomentata da un altro grande filosofo ed educatore come John Dewey, quando afferma che "il fine ultimo della produzione non è la produzione di beni, ma la produzione di esseri umani liberi, reciprocamente associati in condizioni di uguaglianza".
Non è questa la via per il superamento di quella doppia alienazione del lavoratore di cui parlava il giovane Marx: per le cose prodotte estranee da sé e per le stesse condizioni del lavoro? Ma se la persona va veramente messa al centro, e trattata giustamente come fine e non come un mezzo – come rivendicava Immanuel Kant –, allora il paradigma necessariamente si rovescia.
Il processo incessante dell'innovazione, che segue in modo sempre più accelerato il vorticoso avanzamento scientifico, sarà al servizio dell'uomo solo se nascerà da un ambiente di lavoro emulativo, e non competitivo, in un contesto sociale più generale di cooperazione empatica e solidale, di partecipazione e controllo democratico e quindi di libertà creativa. E ciò vale non meno per la stessa ricerca scientifica.
"Né mitizzazioni né demonizzazioni", scriveva a suo tempo Caffè, mentre riproponeva il concetto di "società umana rispetto alle caratteristiche nuove che si attribuiscono alla società tecnologica", e invitando a non ricadere, anche involontariamente, nel mito della mano invisibile e provvidenziale, con il rinvio della responsabile azione per la soluzione dei pressanti problemi sociali.
Se le merci e le macchine possono e potranno essere prodotte sempre di più a mezzo merci e di macchine, l'uomo può essere "prodotto" solo a mezzo dell'uomo. Se il robot potrà essere sempre più servizievole, non sostituirà mai la compagnia di un umano, ma nemmeno quella di un amico animale.
"Dall'etica del lavoro all'estetica individuale del consumo", ben descritta da Bauman, occorre ritornare all'etica sociale e cooperativa del lavoro insieme all'etica responsabile del consumo; superando, dopo quella nella produzione, l'alienazione nel proprio "libero" consumo. Di qui anche la necessità di una forte collaborazione tra sindacati e associazioni dei consumatori. Il problema di cosa produrre, per chi produrre e come produrre trova adeguata soluzione nella valorizzazione nell'unicità della persona nelle sue diverse dimensioni.
I principi fondamentali e il complesso coerente e organico delle norme costituzionali della prima parte, delineano, a ben vedere, non solo le "aspirazioni ideali" di un "nuovo modello di sviluppo", inutilmente cercato altrove, come ricordava Caffè; ma, insieme e ancora, un coerente progetto per il pieno sviluppo della persona umana, in un clima di solidarietà e di emulativa collaborazione nei lavori di piena occupazione, di corresponsabilità intergenerazionale e in un contesto di democrazia progressiva.
Quel mirabile documento di politica economica e sociale delineato dall'art. 3 della Costituzione richiede, innanzitutto, la piena, dignitosa e solidale occupazione di cittadinanza sia di mercato, di quasi mercato e fuori del mercato, con uno Stato "occupatore di ultima istanza" (Caffè); ma tutte egualmente indispensabili e da remunerare adeguatamente, attingendo solidalmente alla produttività complessiva del sistema. A cui attingere per garantire i mezzi adeguati di cittadinanza a chi versa in "disoccupazione involontaria" (art. 38, c.2).
Occorre riprendere lo spirito del '47, e far ricorso alla "apparente" utopia dei nostri costituenti. Una "speranza progettuale" fondata sui valori socialisti, cristiani e liberali, tra loro solidali, e quindi antifascisti, da realizzare per l'unica via: quella democratica; e con gli strumenti adeguati alle nuove complessità odierne.
Giuseppe Amari è componente del Forum economico della Cgil e collaboratore della Fondazione Giuseppe Di Vittorio