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Nella “Lettera rubata” di Edgar Allan Poe si legge: “Il posto migliore per nascondere qualsiasi cosa è in piena vista». Questo aforisma potrebbe essere il motto di quanti nel nostro paese, e non sono pochi, celano i propri introiti lasciandoli in piena vista. Parliamo dell’economia non osservata (NOE) – utilizzata anche nella stima del Pil – o per usare un anglismo di shadow economy. In base a una definizione più rigorosa, l’economia non osservata – costituita prevalentemente dall’economia sommersa (sotto-dichiarazioni e lavoro irregolare) e dall’economia illegale (traffico di stupefacenti, servizi di prostituzione e contrabbando di tabacco) – include tutte quelle attività che, per vari motivi, sfuggono all’osservazione diretta, quindi, non sono limitate a specifici settori economici ma possono interessarli tutti, trasversalmente.
Sulla base delle stime diffuse dall’Istat in Italia, nel 2013 complessivamente il valore dell’economia sommersa e delle attività illegali è stato pari a circa 207 miliardi di euro, il 12,9 per cento del Pil; in aumento rispetto al 12,7 del 2012 e al 12,4 del 2011. Di fronte a queste dimensioni è difficile considerare effettivamente nascoste queste attività.
La spinta a “nascondere” la propria attività può derivare da diversi fattori, tra i quali naturalmente primeggiano il carattere illegale dell’attività svolta o il tentativo di sottrarre i propri introiti (anche se derivanti da attività legali) alla tassazione. Per evitare fraintendimenti, peraltro frequenti, è utile chiarire sin da subito che le cifre appena esposte riguardano il valore economico di attività non rilevate direttamente nelle statistiche ufficiali; esse, quindi, non devono essere confuse con l’ammontare di imposte evase ogni anno; argomento, quello dell’evasione, di cui il Menabò si è già occupato (vedi Fantozzi e Raitano; Morales Sloop). Sul legame tra economia sommersa ed evasione fiscale torneremo con maggior dettaglio in un prossimo numero del Menabò per approfondire i risultati del monitoraggio dell’evasione fiscale, presentati dal governo nella Nota di aggiornamento al Def.
Oltre a implicazioni di ordine etico e legale, un fenomeno di dimensioni così rilevante si ripercuote inesorabilmente sull’intero sistema economico: genera condizioni di concorrenza sleale tra gli operatori, distorce le loro scelte e crea inefficienze nel sistema produttivo con implicazioni sulla crescita stessa del paese. Con l’ausilio dei dati relativi all’economia non osservata del 2013 – a metà ottobre sapremo come è andata nel 2014 – e attingendo ad alcuni lavori proposti in un apposito seminario tenutosi lo scorso 13 settembre presso l’Istat, ci soffermeremo proprio sugli effetti prodotti dall’economia “ombra” sullo sviluppo economico.
I primi dati hanno evidenziato che abbiamo di fronte un fenomeno non trascurabile. Il 14,3 per cento del valore aggiunto del sistema produttivo è generato dall’economia non osservata, nella quale l’economia sommersa pesa per il 13,2 per cento, mentre le attività illegali, incluse nella stima, rappresentano l’1,1. Le componenti più rilevanti della NOE sono quelle legate alla sotto-dichiarazione del valore aggiunto e all’impiego di lavoro irregolare, che hanno generato rispettivamente il 48,2 e il 35 per cento del valore aggiunto complessivo attribuito all’economia non osservata. Meno rilevanti sono, invece, i contributi delle “altre” componenti (mance, fitti in nero ecc.) e delle attività illegali, che pesano rispettivamente per l’8,8 e l’8,0 per cento.
Abbiamo già accennato che l’economia non osservata è un settore trasversale all’intera economia; come mostra la Figura 1 il settore maggiormente coinvolto è quello degli «Altri servizi alle persone» (39,1 per cento), dove incide fortemente il lavoro irregolare connesso ai lavori domestici. In seconda posizione troviamo poi il «Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione» (30,2 per cento), seguito da quelli delle «Costruzioni» e dei «Servizi professionali». L’agricoltura, con il 15,1 per cento, è invece caratterizzata da flussi generati interamente dall’uso di lavoro irregolare; considerate le numerose agevolazioni fiscali di questo settore (regimi forfettari, riduzioni dell’imponibile, applicazione di aliquote ridotte), infatti, la presenza di una dichiarazione infedele risulta alquanto ridotta. Un’attenta riflessione merita poi il settore «Istruzione, sanità e assistenza sociale», in cui operano produttori market e non market (come le amministrazioni pubbliche). Il valore aggiunto sommerso pesa complessivamente per il 7,4 per cento; escludendo, però, la componente non market, l’incidenza del sommerso sul valore aggiunto sale al 21,7.
Figura 1. Incidenza della NOE sul Valore aggiunto per settore economico (valore percentuale ordine decrescente; Anno 2013)
L’analisi territoriale e dimensionale conferma che il fenomeno si concentra prevalentemente nelle imprese di piccole dimensioni e nelle regioni del Sud. Da alcune evidenze emerge anche che il sommerso economico risulta legato al tipo di mercato (e di rapporto tra cliente e fornitore), piuttosto che al settore di attività; infatti tra le imprese non sotto-dichiaranti l’84,2 per cento appartiene alla categoria Business to Business (commercio interaziendale), mentre il restante 15,8 appartiene alla categoria Business to Consumer (vendite al dettaglio). Questa relazione merita attenzione anche se andrebbe ulteriormente verificata.
Contestualmente sono state presentate altre evidenze che mostrano come il sommerso economico influisca sull’efficienza e sulla redditività in modo diverso: nel primo caso determina, con effetti di trasmissione (da fornitore a cliente), un peggioramento rilevabile in tutti i settori economici; in termini di redditività, invece, comporta un generale miglioramento delle performance. Il miglioramento, però, è solo apparente. Come mostra un recente studio di E. Bobbio (Tax evasion, firm dynamics and growth; 2016) i vantaggi dell’evasione si ripercuotono sull’innovazione e quindi sulla crescita.
L’evasione fiscale, infatti, conferisce un vantaggio di costo per le imprese di piccole dimensioni che decidono di investire meno in innovazione, in quanto dimensioni aziendali più grandi comporterebbero maggiori costi di regolarizzazione fiscale. L’effetto di una concorrenza sleale porta le imprese concorrenti a diminuire il mark-up applicato ai loro nuovi prodotti, riducendo così gli incentivi all’innovazione. Stime fatte sulle imprese italiane per il periodo 1995-2006 hanno evidenziato che in assenza di evasione il tasso di crescita dell’economia sarebbe stato dell’1,1 anziché lo 0,9 per cento.
I risultati mostrati evidenziano, ancora una volta, come comportamenti sleali producano benefici solo apparenti, mentre i costi sopportati dall’intera collettività sono ben più elevati. Le nuove informazioni e le nuove metodologie utilizzate nella stima dell’economia non osservata non determineranno in modo diretto un ridimensionamento del fenomeno, però potranno consentire di dotarsi di tutti quegli strumenti necessari a proporre politiche di contrasto idonee per rendere queste pratiche sempre meno percorribili e sempre meno esercitate alla luce del sole.