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Costruire un bilancio dell’iniziativa promossa in Toscana dalla Cgil sul Piano del lavoro è cosa utile, ma complessa. La prima ragione sta nella continua evoluzione (o complicazione) del quadro di riferimento, dei luoghi dove si determinano i processi decisionali e degli stessi interlocutori.
Cominciamo dalla trasformazione relativa ai centri decisionali delle politiche di sviluppo. Con la crisi si sono ridotte molte autonomie del decisore finanziario e creditizio. Monte dei Paschi di Siena è la testimonianza più evidente di tutto questo, ma la dissoluzione non riguarda solo la banca senese, dal momento che tutti gli istituti di credito locali, ultima la Banca di Credito Cooperativo dell’Etruria, sono passati di mano e le funzioni di direzione e di decisione sono state trasferite fuori dalla Toscana.
Questo ha avuto pesanti conseguenze sull’economia regionale, caratterizzata da imprese poco capitalizzate, che prima della crisi potevano contare su un sistema bancario discrezionale e non selettivo nei criteri di erogazione del credito: basti pensare che il solo Mps era presente in almeno il 50% delle imprese toscane.
Il primo effetto di questa dissoluzione è stata la riduzione degli impieghi nel territorio rispetto alla raccolta e anche il ridimensionamento del ruolo di molti attori economici locali; il che è andato a vantaggio del ruolo delle imprese multinazionali meno dipendenti negli investimenti dal sistema bancario locale, mentre sostanzialmente invariato appare quello delle imprese cooperative.
L’altro punto da richiamare, sicuramente il più difficile da affrontare, è che questi anni di crisi hanno prodotto un’esponenziale crescita delle disuguaglianze che ha riguardato il mercato del lavoro e i redditi, ma anche le imprese e i territori. Ancora oggi, il rischio di una frattura nel modello di coesione sociale della Toscana è tutt’altro che scongiurato.
Le iniziative della Cgil per l’attuazione del Piano del lavoro e per favorire investimenti e occupazione si sono mosse in questo contesto e con l’obiettivo di produrre un’azione selettiva che aggredisse le disuguaglianze, nella consapevolezza che il risultato non si sarebbe colto con un meccanico ritorno alle condizioni preesistenti, non solo perché alcune di quelle condizioni non torneranno (ruolo delle banche), ma perché il vecchio modello non era scevro da debolezze e palesi contraddizioni.
Si è trattato quindi di dare un indirizzo strategico a una politica di ripresa, aggredendo i limiti e le contraddizioni, causati dalla crisi e dal modello precedente, tenendo anche conto del fatto che in questa fase il paese ha di fronte possibilità nuove per la crescita. La sostanziale parità euro-dollaro, la caduta del prezzo del greggio, l’iniezione di liquidità da parte della Bce, migliorano infatti la cornice macroeconomica europea.
Al tempo stesso, va sottolineato il fatto che queste “esternalità positive” agiscono per tutti i paesi continentali e, nel caso dei costi energetici, addirittura su scala globale. Tutto ciò può dare una spinta all’intero sistema. Quanto di questa spinta sarà intercettata dai singoli paesi dipenderà però dalle rispettive capacità competitive.
Sarà quindi il livello di specializzazione a dirci quante opportunità sapremo intercettare e questo nell’attuale contesto lo si determina con investimenti e innovazione. Ogni scorciatoia o diversivo può risultare persino dannoso. Già nel passato, miopia ed egoismi ci hanno portato ad affrontare i problemi di produttività e competitività sul terreno dei costi anziché su quello del valore e, nonostante i pessimi risultati, c’è chi insiste ancora.
È questa una sfida aperta per il paese e anche per la nostra regione. In Toscana con la crisi gli investimenti sono crollati ovunque in modo drammatico; come per la maggior parte degli altri indicatori macroeconomici (Pil, esportazioni, occupazione ecc.), il dato toscano è tuttavia migliore di quello delle altre regioni, con una caduta “appena” del 20,4%.
Secondo le stime Irpet (Istituto regionale programmazione economica della Toscana), questa caduta di investimenti rispetto al trend storico, in Toscana si può quantificare in circa 45 miliardi in meno. Una dimensione che ha alterato le capacità produttive della regione (in Italia il quadro è ancora peggiore): minori investimenti vuol dire minore occupazione (24 mila i posti di lavoro persi, ma in termini di unità di lavoro a tempo pieno la perdita si avvicina alle 80 mila unità).
Tutto questo ci ha indotto a un’azione contrattuale che in primo luogo ha puntato al contenimento degli effetti della crisi, in 6 anni abbiamo fatto 80.000 accordi difensivi che hanno salvaguardato dal licenziamento 265.000 persone. Quest’azione si evidenzia anche nel fatto che la caduta della capacità produttiva è di gran lunga più alta di quella occupazionale, differenziale prodotto in buona parte dall’azione contrattuale difensiva.
Ma altrettanto significative sono state le iniziative di contrattazione realizzate per l’occupazione. Basti pensare che nel solo periodo 2011-2013 nelle imprese multinazionali i posti di lavoro creati e stabilizzati con accordi sindacali sono stati oltre 3.500. Attraverso la contrattazione e la concertazione dei bandi di ricerca, si aggiungono altri 700 posti.
Non solo. Di particolare pregio sono state anche le intese promosse per la certificazione delle filiere produttive: ultima in ordine di tempo, quella della moda e, a livello di concertazione, la promozione delle leggi per lo sviluppo delle biomasse a favore della montagna; senza dimenticare l’intesa sul paesaggio, che oltre a salvaguardare un patrimonio ambientale storico e culturale unico al mondo realizza condizioni virtuose per la lavorazione in loco del marmo e avrà ricadute positive sia sul piano degli investimenti che dell’occupazione, con una qualificazione dell’intero distretto.
Sempre per favorire l’innalzamento del modello di specializzazione, è stata impostata la nuova legge sul turismo, mentre con la contrattazione prima e la concertazione poi, si è realizzata la legge sugli stage, che ne impedisce la proliferazione a scopi non formativi (l’uso da parte della grande distribuzione nei picchi stagionali di domanda) e introduce il rimborso spese per i tirocinanti (500 euro).
In sintesi, una capillare diffusione del Piano del lavoro che ha provato ad aprire varchi e a trovare ambiti di declinazione su ogni opportunità regionale, sfruttando i modelli di relazione più consolidati (Legge regionale sulla concertazione) e quelli inediti come il recente Protocollo Arci, Libera, Unicoop, Cgil sulla legalità, nel quale si propone l’obiettivo di realizzare un Piano del lavoro per i beni confiscati alla mafia in Toscana.
Un ultimo cenno alla stagione degli accordi di programma. Stagione che inizia con la crisi delle acciaierie di Piombino, ma che oggi interviene su tutta la nostra economia costiera. Nella costa si concentrano le maggiori criticità occupazionali, le peggiori condizioni del mercato del lavoro in termini di precarietà e la più sensibile caduta di reddito. Non c’è dubbio che un’azione improntata in maniera selettiva non poteva che partire da qui, non solo per fronteggiare un’emergenza, ma anche per essere coerenti nella nostra lotta alle disuguaglianze.
Le azioni promosse muovono allo stato attuale su tre aree, una già definita in termini di accordo e due in corso di definizione. Piombino, Livorno e Massa. Nel primo caso e nel caso Massa le vertenze nascono sotto la spinta di nostre precise rivendicazioni validate da un percorso democratico, nel caso di Livorno non c’è stata analoga validazione.
Non c’è ancora una proposta per Grosseto, che pur non avendo grandi crisi industriali ha indicatori che mostrano criticità simili al resto della costa, a partire dalla bassa rilevanza della componente manifatturiera (6,9 % del Pil, a fronte del 12% di Livorno e Massa Carrara e del 15 della Toscana), criticità che non si esprimono nelle stesse dimensioni a Pisa e a Lucca.
L’accordo di programma di Piombino, a fronte di un intervento di 250 milioni di euro da parte del pubblico (150 Regione e 100 governo) sulla qualificazione delle aree (bonifiche) e dell’offerta infrastrutturale e logistica (porto, interporto, Aurelia), ha attratto investimenti per circa un miliardo, con ricadute occupazionali superiori ai 4.000 addetti diretti, a cui vanno aggiunti tutti quelli dell’indotto e quelli necessari alla realizzazione degli interventi.
Su Livorno e su Massa il confronto con il governo non è ancora concluso, anche in questa circostanza si muove sugli stessi piani d’intervento e vede la Regione disponibile a impegnarsi con circa 230 milioni di euro, ai quali va aggiunto quanto previsto dall’Autorità Portuale di Livorno, che conta di investire 200 milioni, mentre non sono ancora fissate con precisione le poste governative. Negli ultimi incontri si è parlato di 75 milioni sui due accordi.
Il tutto con l’obiettivo di stimolare investimenti privati almeno doppi rispetto a quelli pubblici e con ricadute occupazionali analoghe a quelle di Piombino. L’insieme di questi primi risultati ci permette di svolgere alcune considerazioni sulle scelte complessive di politica economica che abbiamo intrapreso e un primo parziale bilancio.
Sette anni di recessione danno la dimensione della crisi e dell’urgenza per affrontarla. In Europa, la tesi neoclassica dice che occorre rendere efficiente il sistema aumentando la flessibilità. Si fanno le riforme, le risorse si avvicinano all’ottima allocazione, si ritorna competitivi, si accrescono le esportazioni e si avvia un nuovo circolo virtuoso: ma da quando?
Prima che il circolo virtuoso descritto si realizzi interamente passeranno anni e nel frattempo si rischia di chiudere imprese, aumentare la disoccupazione e ridurre ulteriormente la capacità produttiva. Occorrono quindi anche gli investimenti, ed è difficile che essi possano partire spontaneamente solo perché nel frattempo si sono avviate le riforme.
Quello che è accaduto a Piombino con l’accordo di programma e che si sta provando di realizzare a Livorno e a Massa Carrara con strumenti analoghi, dice che se si fanno scelte che riducono le disuguaglianze territoriali e le criticità competitive come quelle infrastrutturali, la Toscana può giocare la partita. Dopo Cevital, l’annuncio di Ge e Saipem sono più di un auspicio e potrebbero rappresentare uno squillo anche per quei capitali toscani gelosamente custoditi nella rendita.
Speriamo non restino sordi anche in questa occasione. Il Piano del lavoro, anche per questo, pur con tutte le sue contraddizioni, rappresenta non solo una valida intuizione, ma un efficace strumento di iniziativa economica e sociale.
* segretario generale Cgil Toscana