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Il Jobs Act approda in Parlamento circondato dalle polemiche. Il nodo fondamentale è quale idea dei diritti. Vanno garantiti a tutti i lavoratori? O vanno ridotti a tutti in una sorta di appiattimento delle tutele? Per Claudio Treves, segretario generale di Nidil Cgil (il sindacato degli atipici), il disegno di legge delega di riforma del mercato del lavoro rischia di acuire divisioni e discriminazioni a danno dei giovani. Lo scenario, spiega il dirigente sindacale ai microfoni di RadioArticolo1 (qui il podcast, andato in onda nella puntata odierna di Italia Parla) è, “banalmente”, quello di “doppi regimi che si moltiplicano”. Treves fa l’esempio del contratto a tutele crescenti: “Nell'impresa – spiega – si potrà verificare il caso, di fronte a due licenziamenti entrambi dichiarati illegittimi da uno stesso giudice, che a un lavoratore spetterà il diritto al reintegro e a un altro invece una manciata di soldi”. Appunto un doppio regime. Non esattamente una situazione equa e “gestibile”.
Inoltre il quadro delle proposte e delle versioni è ancora molto confuso. “Esistono versioni plurime – rileva Treves -. C'è la versione Boeri-Garibaldi, che introduce il contratto a tutele crescenti nella versione ‘avete un periodo di prova più lungo, fino a un massimo di 36 mesi al termine del quale però comunque siete assunti a tempo indeterminato con l'integrale applicazione di tutti i diritti, articolo 18, ovverosia diritto al reintegro, compresi’. E poi – prosegue Treves - c'è la versione Ichino, che è quella verso la quale credo propendano il Presidente del consiglio e gran parte della maggioranza che lo sostiene, che dice: ‘il diritto al reintegro si perde e viene rimpiazzato da una indennità economica proporzionale alla anzianità del tuo rapporto di lavoro. Quanto più sei stato a lavorare in quella impresa, tanto più alto in caso di licenziamento riconosciuto illegittimo riceverai dal punto di vista economico’. L'unica cosa ahimè certa è che governo e maggioranza abbiano deciso che bisogna esibire - come ha detto Susanna Camusso - nei confronti dell'Europa e delle istituzioni internazionali lo scalpo del diritto al reintegro”. Un tema, spiega Treves, “che non ha nulla a che vedere con la difesa né di ingiustizie, né di corporativismi, perché davvero stiamo parlando di un attacco a un diritto delle persone”. “Purtroppo mi dispiace doverlo dire al presidente della Repubblica, che è una figura eccezionale per la sua storia”.
Ma perché, quando si parla in Italia di creare occupazione, invece di mettere in campo un'idea nuova si finisce sempre per discutere di quell'articolo dello Statuto dei lavoratori?
Secondo Treves, in Italia “abbiamo una classe dirigente culturalmente provinciale, nel senso che noi siamo rimasti a una tesi avanzata in un primo momento in campo ‘scientifico’, dall'Ocse in un famoso studio del 1994 nel quale si sosteneva che più forte era la tutela del singolo rapporto di lavoro e peggio sarebbe andata per l'occupazione. Dopo di che la stessa Ocse - perché loro sono liberisti ma sono almeno rigorosi nei loro modi di procedere - ha dovuto riconoscere per bocca del suo capo economista, che è adesso al Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard, che non c'è nessuno scostamento statisticamente rilevante tra l'indice di protezione, come loro lo chiamano, dell'occupazione (sostanzialmente il diritto contro i licenziamenti individuali ingiustificati) e l'andamento dell'occupazione”.
“Il nostro paese – prosegue Treves - questa seconda fase, diciamo così, se la è dimenticata. Quando parlo del nostro paese parlo dei gruppi dirigenti. Questa seconda parte del lavoro dell'Ocse non ha bucato lo schermo, forse perché abbiamo anche delle fortune accademiche che si sono basate essenzialmente sul fatto di sfidare l'ultimo tabù, il totem. E' chiaro che quando si usa nel linguaggio mediatico, e non solo, questi termini si vuole dare l'impressione di una specie di scontro tra persone intelligenti, persone di buon senso, persone aperte al nuovo e un gruppo di assatanati difensori di norme che in realtà non servono a nulla, non avrebbero efficacia. Quando il Presidente del consiglio arriva a dire in conferenza stampa ‘l'articolo 18 è una cosa che riguarda 2.000 persone’ siamo a livelli di squallore comunicativo. Purtroppo la cosa impressionante di questo paese e del suo sistema mediatico è che nessuno gli ha fatto notare il ridicolo di questa affermazione, perché quantomeno le persone che lavorano in aziende con più di 15 dipendenti nel nostro paese sono 8 milioni, una certa differenza tra 2.000 e 8 milioni”.
Treves fa poi l’esempio della sua categoria, gli atipici e i precari, ai quali lo stesso Renzi si è rivolto difendendo il Jobs Act. “Quando il presidente del Consiglio nel video messaggio dice ‘voi dove eravate’ e cita questa Marta che dovrebbe essere una precaria della pubblica amministrazione, è totalmente inconsapevole di quali sono le condizioni nei quali si deve fare sindacato. Io vorrei che Renzi avesse condiviso un'esperienza che ho fatto in una fabbrica a Modena, dove ho partecipato a un'assemblea di lavoratori in somministrazione, interinali, che sono quelli che stanno ‘meglio’ nella scala della precarietà. Sono andato a fare un'assemblea e già questo è un fatto straordinario – sottolinea Treves –, che sia stato possibile. Ho raccontato le cose che eravamo riusciti a ottenere nel loro contratto. Poi si è si è alzata una signora e ha detto: ‘Sono tanto contenta di tutti questi risultati. Io però vorrei sapere, possibilmente un po' prima del venerdì alle cinque, se la settimana successiva vengo chiamata di nuovo a lavorare’. Se questa è la situazione, cioè se le persone sono messe in questa condizione di ricattabilità, forse il loro primo pensiero non è di iscriversi al sindacato – ammette Treves - ma è quello di avere una qualche forma di tutela maggiore. Il sindacato fatica a rappresentare (nel senso di fare aderire) queste persone, perché poi queste persone quando aderiscono diventano immediatamente le pecore nere”.
“Forse – conclude Treves - queste cose il presidente Renzi le ignora totalmente, forse non c'è nessuno neanche tra i suoi collaboratori che le conosca, quindi non gliele può neanche spiegare. Ma sarebbe bene avere qualche rispetto in più nei confronti di chi fa sindacato in condizioni simili, a fronte di queste ricattabilità che sono il frutto non dell'azione del sindacato ma appunto della legislazione guarda caso sostenuta soprattutto dall'attuale presidente della commissione lavoro del Senato (Maurizio Sacconi, ndr) che mi pare un'importante figura negli equilibri della maggioranza”.