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Troppo piombo nelle ali del lavoro agile. Lo dice in seduta plenaria il senatore Pietro Ichino, illustre avvocato e professore, già sindacalista. E sotto questo brutto titolo l’onorevole professore raccoglie alcuni elementi e chiavi di lettura del cosiddetto lavoro agile, che periodicamente risuonano dagli spalti datoriali e da alcune tribune accademiche. E chi ancora si meraviglia delle cose del mondo non può rimanere indifferente di fronte all’espressione “la prestazione lavorativa è esentata dal vincolo contrattuale del coordinamento spazio-temporale, assumendo così i tratti essenziali della prestazione autonoma”.
Certo può essere che chi si associa a questa affermazione si riferisca in realtà a dimensioni spazio-temporali diverse dalla nostra, ma qui da noi le cose vanno un po’ diversamente. Perché basta uscire dalla retorica e andare nel mondo reale, dove il lavoro agile esiste già ed è spesso formalizzato in progetti o accordi, per accorgersi che nessun datore di lavoro si sognerebbe mai di cedere il vincolo del coordinamento spazio-temporale. Né tantomeno di rinunciare ai vincoli di direzione e organizzazione del lavoro, costitutivi proprio del lavoro dipendente di qualsiasi tipo.
Nella pratica delle decine di progetti e accordi di smartworking che in questi anni si sono diffusi nelle aziende italiane, mai una volta il datore di lavoro ha disposto o proposto che il lavoratore agile fosse libero di lavorare in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo. Che poi fosse anche solo parzialmente libero di modificare le direttive e le disposizioni tecnico-organizzative del lavoro è questione che non vale neanche la pena sollevare. Anzi, a voler guardare il mondo, quello vero, le aziende che stanno sperimentando il lavoro agile, lo stanno facendo autorizzando i lavoratori a svolgere la propria prestazioni in luoghi specifici e, nella quasi totalità dei casi, vietando tassativamente il lavoro in luoghi pubblici.
Altro che assenza del vincolo. La chiamano tutela delle informazioni riservate e rispetto della privacy aziendale. Un tema su cui le aziende sono molto sensibili, anche se alcune nuove tecnologie consentirebbero di lavorare in pubblico con un rischio molto basso. Certo esistono anche realtà dove il lavoro agile viene praticato, ma non è formalizzato. E questo spesso lo si traduce nella richiesta di continuare a lavorare in un altro luogo, fuori dall’orario di lavoro, senza alcun riconoscimento e alcuna tutela, neanche quelle basilari. E probabilmente non ha nulla di smart se non lo si riconduce a un sistema di regole condiviso, anche per via contrattuale.
Ma dal mondo reale, quello delle aziende e dei lavoratori coinvolti in esperienze di smartworking emerge però anche altro: la difficoltà di contestualizzare l’introduzione del lavoro agile in un processo di innovazione dell’organizzazione del lavoro. Che in altre parole vuol dire, ancora una volta, che introdurre un nuovo strumento non è sufficiente a fare innovazione. Si può fare al massimo del taylorismo digitale. E invece questa sfida dell’innovazione si può vincere, nonostante le resistenze di una parte del management, proprio attraverso un maggiore coinvolgimento dei lavoratori e dei sindacati.
Paolo Terranova è presidente di Agenquadri