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I lavoratori dell’edilizia non hanno ancora un’esatta percezione dei pericoli che corrono. Lavorare in altezza, ad esempio, su tetti o solai: solo per la metà di loro rappresenta potenzialmente un rischio molto grave, malgrado le cadute dall’alto siano la causa di un terzo degli incidenti mortali indennizzati dall’Inail. A svelare questa insufficiente consapevolezza è la ricerca “La percezione del rischio e della sicurezza negli ambienti di lavoro. Un’indagine sui cantieri edili” (scarica il pdf), realizzata nell’ambito di una convenzione tra Ance Toscana e Dipartimento di Statistica, informatica e applicazioni “G. Parenti” dell’Università di Firenze. La ricerca è stata costruita mediante interviste dirette a 207 lavoratori di tutte le età: in maggioranza italiani (65 per cento) con bassi titoli di studio (elementari e medie), assunti con contratti a tempo indeterminato (65 per cento) e una media di 17 anni di esperienza professionale in edilizia. L’88 per cento del campione, inoltre, ha frequentato corsi di formazione.
L’indagine evidenzia come i lavoratori tendano a sottovalutare i rischi legati ad alcune specifiche attività. Il 60 per cento degli intervistati considera bassa la possibilità di infortunarsi lavorando a terra in presenza di ostacoli, materiali e fosse; il 26 per cento ritiene bassa la potenziale gravità del rischio di incidente per il lavoro su ponteggi, il 49 per cento per le operazioni di spostamento di pesi a mano, il 47 per l’utilizzo di sostanze chimiche particolari (come colle o additivi speciali), più del 70 per l’uso di martelli e mazzuoli per battere o rompere. E solo il 47 per cento degli intervistati ha l’esatta percezione della notevole potenziale gravità dell’utilizzo e della presenza di mezzi meccanici (come ruspe ed escavatori) in cantiere, che infatti rappresentano, dopo le cadute, la seconda causa di indennizzo per morte.
Determinante per il successo dell’indagine è stato il ruolo svolto dagli Rlst, che hanno dimostrato – si legge nell’introduzione – una notevole “capacità di penetrazione” nelle imprese. “L’Università – spiega Silvia Anghiari, Rlst Cgil di Arezzo – si è subito accorta delle difficoltà di accedere ai cantieri, in particolare delle piccole e medie imprese: pertanto ha deciso di utilizzare gli Rlst aretini quale strumento di intercettazione dei lavoratori edili”. Le maggiori difficoltà, continua, sono state “le interviste ai lavoratori, considerato che andavano fatte singolarmente e che la complessità e lunghezza del questionario comportava una ventina di minuti a persona, creando quindi problemi organizzativi all’azienda”. A dimostrazione dell’ottimo lavoro svolto dagli Rlst, Anghiari rimarca come “nella riunione conclusiva, presso la Regione Toscana, sia stata confermata la possibilità di proseguire il progetto con la nostra collaborazione, visto che, secondo gli esperti dell’Università, le risposte date a noi dai lavoratori risultavano più veritiere di quelle date ad altre figure, che non erano conosciute dai lavoratori stessi”.
Tornando alla ricerca, molto interessanti sono i dati sulla storia infortunistica degli intervistati. Quasi la metà del campione (46 per cento) dichiara di aver subito infortuni pregressi. Una quota abbastanza elevata e indicativa del rischio ricorrente nell’attività edilizia. Dato ulteriormente avvalorato dall’elevata percentuale (59) di coloro che hanno dichiarato di aver assistito a infortuni di colleghi di lavoro. Di questi, più di un quinto (23 per cento) dice di aver subito o assistito a infortuni “gravi”.
L’indagine rivela anche alcune “verità” che meriterebbero di essere discusse e approfondite. I dispositivi di protezione individuale (dpi), ad esempio: sono utilizzati sempre (o quasi sempre) soltanto dal 64 per cento degli intervistati, il 47,5 ha imparato da solo a usarli, mentre il 48,4 ammette che è difficile lavorare indossandoli. Attenzione va anche posta ai ritmi di lavoro: al 32,8 per cento dei lavoratori “viene chiesto spesso di fare in fretta”, un dato che gli autori della ricerca ritengono “sufficiente per considerare i tempi spesso stretti del lavoro come una potenziale fonte di rischio”.