Geber Shawky è visibilmente affaticato. Sono trascorse più di due settimane dall’inizio del Ramadan, e i segni delle privazioni solcano il suo volto. “In questo momento non invidio chi lavora nei cantieri. Ho fatto l’asfaltista per molti anni. So cosa significa patire il sole, con la terra che brucia sotto i piedi, senza mangiare né bere”.

Ora Shawky è uno dei segretari della Fillea Cgil di Milano. È arrivato in Italia dall’Egitto quarant’anni fa. Crede in Allah, nel rispetto reciproco tra le persone e nelle decisioni prese secondo coscienza. Non sopporta l’ottusità. “Un muratore che perde la lucidità a causa del digiuno mette a repentaglio la sua vita e quella degli altri. La salute è il bene più grande. Chi non è in grado di farlo, non è obbligato a rispettare il Ramadan. Ma se le condizioni fisiche e mentali lo permettono, non vedo perché a un musulmano non debba essere data la possibilità di vivere appieno questa festività così importante”.

Il Ramadan è il nono mese dell’anno lunare islamico. Corrisponde a un periodo di sacrificio, che ricorda al fedele la sofferenza dei poveri. Dall’alba al tramonto è vietato bere, mangiare e avere rapporti sessuali. È anche un mese di riconciliazione con se stessi e con gli altri, di purificazione. Nei paesi arabi, quando c’è il Ramadan la produttività diminuisce, ma i consumi delle famiglie aumentano, così come i giri d’affari. Si sta insieme alla famiglia e ci si scambia regali.

In Europa vivono circa quarantacinque milioni di musulmani, di cui un milione e mezzo in Italia. Lasciare i luoghi d’origine significa fare i conti con la proprie radici, adattarsi, modificare le società di approdo. A volte ciò crea dei contrasti. Nel caso del Ramadan, prevale il buonsenso.

A questa conclusione siamo giunti al termine di un’indagine svolta in diverse regioni italiane, per capire se e in che modo cambia l’organizzazione del lavoro nel periodo del Ramadan, quando si è in presenza di dipendenti di fede islamica. Bisognosi, dunque, di una maggiore flessibilità oraria, importante per garantire resistenza e prontezza di riflessi. I settori più coinvolti sono quello edilizio e agricolo. La necessità è di conciliare il diritto della persona a esercitare il proprio credo con le esigenze della produzione, ma soprattutto di salvaguardare la salute e la sicurezza di tutti.

Gli edili e la normadi interculturalità
“È una questione seria, alla quale abbiamo dedicato molte energie” interviene Moulay El Akkioui, segretario nazionale della Fillea Cgil, che continua: “È evidente che un cantiere abbia come priorità il rispetto della commessa. Ciò impone dei ritmi di lavoro ben definiti. Come sindacato, abbiamo sempre cercato di trovare soluzioni pratiche basate sulla comprensione delle diversità culturali”.

El Akkioui è tra i promotori della norma di interculturalità, inserita nel contratto nazionale delle costruzioni nel 2008, e recepita dai rinnovi successivi. Si tratta di una conquista di cui è molto fiero, che ha favorito un cambio di mentalità anche all’interno della Cgil.

Grazie a questo strumento
si è dato il via a corsi di formazione sindacale che hanno come finalità una maggiore conoscenza da parte degli iscritti. Sul piano nazionale, la categoria delle costruzioni ne conta 350mila. Il 30 per cento è costituito da immigrati. Di questi, il 16 per cento è di fede islamica. In alcuni territori il numero di stranieri sfiora il 70 per cento. A Milano, ad esempio, si attesta intorno al 60 per cento. Ciò ha portato il sindacato a rimodulare le politiche di tutela. Per quanto riguarda gli imprenditori, El Akkioui riconosce una certa apertura rispetto ai cambiamenti avvenuti. Nel periodo del Ramadan, le soluzioni organizzative possono essere le più varie. Chi segue il digiuno può iniziare prima il suo turno, quando le energie sono maggiori, oppure riposare durante la pausa pranzo. Laddove ci siano lavorazioni a ciclo continuo, si può affidare il notturno ai musulmani che ne avvertano l’esigenza. D’altra parte, si tratta solo di un mese. Un periodo molto limitato, sul quale, però, si misura la capacità di accogliere o meno le trasformazioni avvenute.

Cinque anni fa il Ramadan cadeva in agosto. A Mantova scoppiò il caso dei braccianti impegnati nella raccolta dei meloni. Si rifiutavano di bere. I datori di lavoro provarono a imporglielo, nacquero delle polemiche.

“Molti non capiscono perché una persona non debba mangiare né bere per motivi religiosi. Spesso, questa mancanza di comprensione prescinde dal Ramadan, trasformandosi in un problema più ampio di rispetto dei diritti – spiega Ruggero Nalin, segretario generale della Flai Cgil di Mantova –. In ogni caso, quest’anno non abbiamo ricevuto particolari segnalazioni. In linea di massima gli imprenditori mostrano una maggiore disponibilità rispetto al passato”. “Possiamo interpretarla come l’esito di campagne informative quali ‘Gli Invisibili’, condotta in collaborazione con la Cgil nazionale, per combattere lo sfruttamento” aggiunge il sindacalista.

L’universo religioso
che gravita nei luoghi di lavoro è molto vario, e tra i musulmani ci possono essere differenze sostanziali. Nella maggior parte dei casi si affidano alla coscienza personale, magari ricorrendo a un regime di alimentazione piuttosto elastico. Insomma, quando la Cgil e le associazioni distribuiscono bottigliette d’acqua tra i raccoglitori, c’è chi stappa e beve, pur osservando il Ramadan.

Parma e Bari, rapporti consolidati
Così come in altri contesti, anche in una città come Parma non c’è bisogno di accordi specifici per lavorare in sintonia. E nel complesso settore agricolo finisce per prevalere la ragionevolezza. Il tutto si risolve attraverso la flessibilità oraria e una buona dose di tolleranza. Come si è giunti a questo risultato? “Attraverso una convivenza tra popolazione immigrata e locale ormai di lunga data – racconta Pape Moctar Tall, responsabile del Coordinamento migranti della Cgil locale –. Grazie ai buoni rapporti di vicinato, ai bambini che vanno insieme a scuola. È merito delle associazioni e delle istituzioni che operano con responsabilità. Chi nasce in Italia da genitori stranieri, poi, non ha nemmeno bisogno di mediatori. Sono loro, le cosiddette seconde generazioni, a fungere da mediatori”.

Dall’altro capo del paese, Azmi Jarjawi, componente della segreteria della Cgil di Bari, racconta dei pescatori italiani e tunisini che “sulla barca sono come una famiglia, e problemi non ce ne sono mai stati, nemmeno nel periodo del Ramadan”. “Tra gente di mare è così” aggiunge.

Il ricatto della precarietà

La vera discriminante è rappresentata dalla precarietà del lavoro, dal sommerso, dalle paghe da fame. Anche se sei digiuno e assetato non lo dici, vai avanti a riempire cassette di frutta come un automa, perché ogni singolo carico può servire alla sopravvivenza della tua famiglia, e tu non puoi permetterti di indispettire il padrone chiedendo una pausa per pregare.
A Treviso si è scelta la strada della sensibilizzazione. Attraverso la distribuzione di un vademecum, la Cgil sta svolgendo una campagna informativa finalizzata alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Il documento, redatto a partire da un progetto dell’Inail, contiene una serie di buone pratiche da mettere in atto nel mese del Ramadan. Tra queste, una distribuzione dei carichi di lavoro che tenga conto del calo di energie dovuto al digiuno, la previsione di momenti di recupero, l’intervento di mediatori culturali. Sono solo alcuni dei consigli contenuti nel testo. Alcuni hanno destato delle perplessità proprio in seno alla Cgil, come la verifica, tra i dipendenti, di coloro che scelgono di rispettare il Ramadan, e la loro segnalazione al medico competente. Il motivo è la privacy. Nicola Atalmi, responsabile per la sicurezza e per l’immigrazione presso la Cgil trevigiana, risponde così: “Si tratta solo di consigli. La nostra attenzione è rivolta alla sicurezza del lavoratore che digiuna e a chi gli sta attorno”.

Torniamo da Geber Shawky. Gli chiediamo dove trovi le forze per affrontare la vita faticosa del sindacalista, senza bere né mangiare. Ride, prima di affermare: “Ci sono abituato. E se proprio vuoi saperlo, prego una volta al giorno e non cinque, quando torno a casa la sera, perché preferisco così. Qui mi chiamano straniero, ma ogni volta che torno in Egitto mi dicono: ‘Sei italiano, torna al tuo paese!’. Non so più quale sia la mia nazionalità. Una cosa è certa: mi sento ‘mescolato’”.