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Per tutto il tempo siamo stati su quel tetto come all’agorà”, ha detto, poi si è fermato, come attraversato da un dubbio: “È così che si dice, vero? L’agorà, quella che ci insegnavano a scuola”.+ “L’agorà è una piazza”, ho risposto. “Cosa intende di preciso”? “Intendo quel posto sulla collina, in Grecia, dove i loro operai hanno fatto quella protesta”. “L’acropoli, allora è l’acropoli”. “Insomma ci siamo sentiti come se fossimo stati lì, mi capisce? Anche se noi tutto quello che abbiamo fatto l’abbiamo fatto prima di loro, e quando ci hanno portati giù è come se i greci ci avessero dato il cambio”.
È rimasto in silenzio qualche secondo, guardandosi le scarpe. Io gli stavo seduto di fronte e non dicevo niente. Nella finestra della cucina c’era un pezzo di Milano, con la sua pioggia e lo sciacquio lontano dell’autostrada. “È quasi la stessa vista che avevamo dal tetto”, ha detto. “La tangenziale, i capannoni, quel niente fabbricato che è la periferia di Milano. Da qui però la Impe non si vede, è più a nord”. Ho allungato un braccio e gli ho offerto il mio pacchetto di sigarette: “Ne vuole un’altra?”, ho chiesto. L’ha sfilata e se l’è messa in bocca quasi senza guardare nella mia direzione. Sul fuoco, la caffettiera ha cominciato a borbogliare.
“Di Maria si è sparato dopo che ci hanno riportati giù”, ha detto, mentre tirava un colpo di tosse. “È il più giovane di tutti noi, sa, non ha ancora trent’anni, ed è quello che ha avuto più paura di tutti”. “Adesso sta bene, lo dimetteranno presto”. “Ha mirato al cuore e non l’ha preso: pensi a quello che avrebbero avuto sulla coscienza quelli là se si fosse ucciso! Lui ha una moglie giovane, sa? E ha anche due figli, quello più grande fa il primo anno di scuola. E il loro papà si è sparato al cuore”. Ha tirato una boccata lunga e profonda, il fumo ha impastato la lingua prima di essere sputato fuori. Si è alzato per spegnere il fuoco e preparare le tazze: “Due cucchiai?”, ha chiesto.
“Era venuto su con una scarpa della moglie nella tasca della giacca”, ha continuato. “Una scarpa rossa con il tacco, roba da balera. L’ha messa fuori dalla tenda, ci passava le serate con quella scarpa. ‘Se mi succede qualcosa, diceva, lei se lo ricorderà ogni volta che le verrà la voglia di andare a ballare con un altro’. Ci pensa? È come se sapesse che le cose dovevano andare male! Noi lo prendevamo in giro, ci sono un sacco di voci sulla signora nel quartiere... ma questo magari non lo scriva”.
“Non è per quello che si è sparato”, ho detto, mescolando lo zucchero. Ha risposto con un gesto della mano che voleva dire “Lasciamo perdere”. “Io non lo so dove ha recuperato la pistola”, ha continuato. “Nessuno di noi sapeva che ne avesse una, lui era un tipo tranquillo. Magari gliel’ha data suo cognato che fa la guardia giurata, valle a capire certe cose. Però mentre eravamo su continuava a ripetere: ‘Se le cose si mettono male, io torno a casa e la faccio finita’. E l’ha fatto, o comunque ci ha provato. L’ultimo giorno, quando quelli che erano scesi dentro avevano già cominciato a sparire, l’ha ritirata fuori: ‘Io mando i bambini a letto, e mentre Giada è in bagno a prepararsi per la notte mi siedo in poltrona, con la tv spenta e un bicchiere di whisky e la pistola sul tavolino. Mi accendo una sigaretta e ne fumo un po’, ma non tutta, non la voglio finire perché la voglio usare come timer: io la accendo e so che prima che arrivo alla fine devo premere il grilletto, altrimenti Giada torna in cucina e puff!, tutto finisce’ – così diceva, ‘puff!, e tutto finisce, e intanto teneva in mano la scarpa, e noi ci mettevamo a ridere. Di Maria! Ma piantala con ‘ste cazzate!”, gli facevamo, e per prenderlo in giro gli dicevamo che non l’avrebbe mai fatto perché aveva paura del fuoco: ‘Tu hai paura del fuoco, Di Maria, e io lo so che mentre sei lì ti viene in mente che se non ti miri bene, se sopravvivi, comunque la sigaretta ti cadrà addosso e ti scotterai, e tu hai paura di scottarti, tu hai paura del buio e del fuoco, tu non vai mai da solo in magazzino durante il turno di notte perché hai paura di fare il corridoio che è poco illuminato...’. Così gli ho detto io l’ultimo giorno”.
“È andato a trovarlo in ospedale?” “Non ancora. Finora non ci è andato nessuno di quelli rimasti. Non abbiamo il coraggio. Lei ci è andato”? “Non mi fanno entrare. Solo parenti, colleghi e amici. Magari a lui farebbe piacere”. Il caffè era rimasto amaro nonostante lo zucchero e non l’ho bevuto fino in fondo. “Le cose hanno cominciato ad andare male dopo il quarto o il quinto giorno. Con il rappresentante sindacale – che dormiva in tenda con noi dalla prima notte – abbiamo discusso per un giorno intero se far salire o meno qualcuno di quelli là per parlare. Di Maria e un paio d’altri volevano anche vedere le loro mogli e i figli, e si è pensato che potevamo anche stabilire un’ora del giorno in cui potevano venirci a parlare di persona... come in galera. Non so nemmeno più quanto ho speso di cellulare, in otto giorni lassù. A uno gli telefonava di continuo la suocera, ‘Vieni giù! Vieni giù! Han detto che se scendete entro domani vi danno un altro appuntamento in prefettura!’, a un altro telefonava la moglie, hanno un figlio di tre mesi che è allergico al latte: ‘Amore’, le diceva lui, ‘Lo so, ma se ci fanno chiudere è peggio, io devo stare qui, cerca di capire...’.
Quando l’anno scorso ci hanno detto che chiudevano e che ci lasciavano a casa abbiamo occupato per tre mesi, abbiamo cominciato l’autogestione. Sui giornali scrivevano cose del tipo: ‘Gli operai vogliono fare i padroni’ o anche ‘Il soviet della Impe’, cose del genere. Noi non è che siamo comunisti, ma dovevamo lavorare e ci siamo organizzati: abbiamo tenuto le stesse regole, solo che tutti adesso lavoravano anche per gli altri. Io ero a capo di un gruppo che puliva i bagni dopo il turno; qualche impiegato lavava i piatti della mensa e un paio di segretarie si erano messe a far da mangiare per tutti. Le cose sono andate avanti così, in tre mesi di autogestione abbiamo fatturato quasi 200.000 euro – che non è poco – e abbiamo evaso tutti gli ordini del trimestre”. “Poi hanno detto che vendevano”, ho detto. “Sì, a una cordata di tedeschi e danesi. Ci hanno fatti sgomberare, ci hanno detto che tutto si sarebbe sistemato nel giro di qualche settimana”. “E invece”? Mi ha guardato, sollevando le sopracciglia: “E invece niente: gli europei non sono neanche venuti a vedere la fabbrica. Forse è gente che non è mai esistita”.
“E voi siete saliti sul tetto”. “Sì, sull’acropoli. Abbiamo spaccato i sigilli e siamo saliti una notte tra il venerdì e il sabato. Abbiamo portato le tende, i termos, delle taniche di acqua, la pasta, dei fornelli da campo e i sacchi a pelo. Cos’altro potevamo fare? Noi ci siamo andati perché era l’unica cosa che ci era rimasta da fare: alla provincia non ci volevano ricevere, il prefetto ci aveva detto che non poteva fare niente, perché se volevano chiudere e lasciarci a casa era nelle loro facoltà. I primi giorni la polizia e i carabinieri hanno tentato di salire e di portarci giù. Ci parlava Munari, il rappresentante sindacale che era con noi, e ogni volta quelli tornavano giù. Io quello che gli diceva non lo so, però funzionava. Altre volte prendeva il megafono e si metteva a urlarci dentro, raccontava di come ci stavano truffando. La gente, sotto, applaudiva, e c’erano anche le televisioni. Poi...”.
Si è fermato di nuovo, come spaventato. “Poi è successa quella cosa che nessuno sa spiegare, e che ha terrorizzato tutti: le persone hanno cominciato a sparire...”. Ho messo il pacchetto sul tavolo, entrambi abbiamo preso una sigaretta e l’abbiamo accesa. A Milano oggi la Impe è chiusa, ci sono ancora i sigilli e nessuno produce più turbine e laminatoi. L’azienda non riaprirà perché al momento non ci sono acquirenti. “Dicono anche che non è vero, che ci siamo inventati tutto per fare le vittime. Il martedì o il mercoledì tutto è cominciato, io non lo so spiegare, non lo so”, si è coperto il viso con le mani, ha cominciato a respirarci dentro. “La mattina alle cinque abbiamo sentito il rumore dei camion e abbiamo capito che stava succedendo qualcosa. Ci siamo affacciati e abbiamo visto una fila lunghissima che entrava dai cancelli, e decine di operai con gli elmetti gialli e la tuta. ‘Chi cazzo sono quelli?’, ha detto Di Maria. Sono entrati nello stabilimento come se sapessero dove dovevano andare. Noi ci siamo messi a urlare dal tetto, Munari ha tirato fuori il megafono, ma non sapeva cosa dire: i bilici non erano i nostri, e sui rimorchi non c’era scritto niente. Sono entrati con le chiavi, qualcuno gli aveva dato le chiavi. Nessuno ci ha detto niente, ma dopo qualche ora abbiamo sentito dei rumori di ferraglia provenire da sotto e abbiamo capito che stavano smontando i macchinari”.
“E lì è successa quella cosa che nessuno riesce ancora a spiegare”. “Sì, ho ancora i brividi a pensarci. La polizia dice che ci siamo inventati tutto, e che è impossibile che la gente sparisca così, ma nessuno sa veramente dove siano finiti... nessuno ha più avuto notizie, nessuno”. “Qualcuno ha scritto che hanno tradito, che hanno contrattato e sono stati trasferiti in segreto”. “Ma non è possibile! Come si può fare una cosa del genere in poche ore? Loro scendevano giù, entravano in reparto...”. “Il primo è stato Munari”. “Sì, il primo è stato lui. È naturale: era il nostro rappresentante sindacale. Quando abbiamo capito cosa stava succedendo volevamo scendere con le spranghe, era una cosa assurda, noi eravamo in otto e loro non so quanti di più, e poi fuori c’era la polizia. Munari ci ha fermati, ci ha detto di stare tranquilli: ‘Se lo stanno facendo davvero, stanno facendo qualcosa di illegale’. così ha detto. Vado giù a parlare con loro. Rimanete qui, sarò di ritorno al massimo entro un’ora’ ”. “Ed è sceso”. “Sì, ci ha detto che ci avrebbe chiamato prima di risalire ed è sceso, sono stato io ad aprirgli la porta che dà sul sottotetto”. “Quando non l’avete visto tornare cosa avete pensato”? “Le abbiamo pensate tutte: che ci avesse abbandonati, ma era impossibile, perché lui era sul tetto con noi, è sempre stato insieme a noi e lo conosciamo bene; che l’avessero arrestato, ma Di Maria sorvegliava l’uscita e diceva che nessuna macchina è entrata o uscita dalla fabbrica per tutto il tempo. Al telefono Munari non rispondeva, era sempre spento, e intanto erano passate più di due ore, era giorno fatto, e i rumori dello smantellamento continuavano come prima”.
“Chi è stato il secondo”?
“Petrucciani, il più anziano tra quelli che erano sul tetto. Ha detto: ‘Vado giù a vedere cosa succede, perché non è normale che Munari non si faccia vivo’. Così ha detto: non è normale. Vado io!, ho detto, ma lui non lo ha permesso, perché diceva che era giusto scendesse il membro più anziano”. “E anche di Petrucciani non avete più avuto notizie”. “No. Sparito come Munari. Petrucciani era vedovo, ha un figlio che vive in Australia. Nei giorni successivi abbiamo provato a metterci in contatto con lui, ma non siamo riusciti a trovarlo: credo che non sappia ancora che suo padre è scomparso, risucchiato dalla fabbrica”. “E Di Maria”? “Di Maria era agitatissimo, è stato il primo a dire che li stavano ammazzando. Verso mezzogiorno, quando ormai era chiaro che anche Petrucciani non sarebbe risalito, ha cominciato a urlare nel megafono, a chiedere aiuto dal tetto. ‘Ci stanno ammazzando! Smantellano la fabbrica e ci ammazzano!’. Ma giù, nel parcheggio dove di solito stavano la gente e i giornalisti, non ci sentivano, perché avevano le orecchie piene del rumore dei lavori”. “E i telefoni”? “Li abbiamo chiamati, abbiamo mandato dei messaggi. Mi hanno anche passato uno dei carabinieri: ‘A noi non è giunta voce di una vostra delegazione in reparto’ ha detto”. “Davvero”? “Lo posso giurare. Lo scriva, questo la gente lo deve sapere. Giù non si sono accorti nemmeno dei lavori di smantellamento, e nessuno ha avuto notizia del rappresentante sindacale e di Petrucciani”. “Come se non fosse successo niente?” “Esatto”. “E i vostri parenti? Le vostre mogli”?
“Anche loro non avevano visto niente. Erano contente, anzi: da fuori sembrava che la fabbrica avesse ripreso a funzionare... Ma glielo dico io cos’è successo: Munari e Petrucciani sono ancora lì, in fabbrica. Li hanno presi e li hanno rinchiusi da qualche parte, e forse sono morti. Noi ci siamo lasciati portar via perché ormai avevamo paura a far tutto, e Di Maria dava fuori di matto, era convinto di morire e parlava con la scarpa rossa”. “Quando vi siete consegnati alle autorità cosa vi hanno detto?” “All’inizio niente. Poi che la fabbrica era stata venduta a pezzi, che li stavano smantellando per impiantarli in Cina e che noi avevamo bisogno di un periodo di riposo”. “E Munari? E Petrucciani?” “Non ci hanno neanche fatto i loro nomi. Quando abbiamo chiesto, ci hanno detto che non sapevano che sul tetto fossimo saliti in otto”.
* Andrea Tarabbia è nato a Saronno, nel 1978. Dottore di ricerca in Teoria e analisi del testo, fa parte del comitato di redazione della rivista Primo Amore. È di recente uscito il suo primo romanzo La calligrafia come arte della guerra (Transeuropa).
(Il Mese)