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L'Italia è penultima in Europa per spesa nella scuola. Il nostro paese detiene anche il record di Neet, i giovani che non lavorano né sostengono un percorso di studi. È quanto emerge dal rapporto annuale dell'Ocse, dal titolo Education at a glance 2016, lo sguardo sull'istruzione fornito dall'Organizzazione. "La spesa pubblica per l'istruzione in Italia è diminuita del 14% tra il 2008 e il 2013", si legge nei dati, che certificano il passo indietro in termini di investimenti. "Un'istruzione di qualità ha bisogno di un finanziamento sostenibile", secondo gli esperti, mentre i governi che si sono succeduti hanno solo tagliato nel settore. Una diminuzione che "riflette non solo una riduzione della spesa pubblica complessiva in termini reali, ma anche un cambiamento nella distribuzione della spesa pubblica tra le diverse priorità".
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I sindacati denunciano: avvio nel caos
Gli stipendi sono bassi e i docenti troppo anziani. Sono le paghe ridotte e "poco dinamiche" nel tempo che caratterizzano la scuola italiana. In quattro anni - dal 2010 al 2014 - gli stipendi degli insegnanti sono diminuiti in termini reali del 7%, spiega il rapporto, e pesano dal 76 al 93% della media Ocse. La quota di giovani di età compresa fra i 25 e i 34 anni in possesso di un titolo universitario che riescono a trovare un impiego è in Italia di oltre venti punti inferiore alla media dei paesi Ocse: il 62% contro l'83%. Al contrario risulta eccessivamente alto il numeri di giovani tra i 20 e 24 anni che rientrano nel bacino dei Neet: questi sono un terzo del totale.
L’articolata e attendibile ricerca dell’Ocse sui sistemi generali dell’istruzione "conferma sostanzialmente l’allarme che, ormai da anni, la Flc, insieme alle altre organizzazioni sindacali, lancia, quasi sempre inascoltato. L’analisi della riduzione della spesa pubblica per l’istruzione, sia in relazione al Pil che in termini assoluti, tra il 2008 e il 2014, rilevata dall’Ocse, non solo fa scendere l’Italia agli ultimi posti della classifica mondiale, ma coglie le vere vittime delle politiche economiche di questi anni e dei tentativi di uscita dalla crisi attraverso meccanismi di austerity". È quanto afferma Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc.
Il sistema dell’istruzione pubblica ha pagato, insieme ad altri settori del welfare e dei servizi, "la politica sbagliata dei tagli alla spesa pubblica, mentre si consegnavano miliardi ai privati, sotto forma di cunei fiscali e decontribuzioni, e non si aggrediva l’enorme evasione fiscale. Ne hanno fatto le spese le istituzioni pubbliche dell’istruzione e della ricerca, dalle primarie alle università, deprivate e impoverite di risorse; ne hanno fatto le spese i lavoratori della scuola e della conoscenza, i cui salari sono notevolmente al di sotto della media Ocse, mentre la riforma Fornero sulle pensioni, tra le peggiori in Europa, ha determinato un'età media sempre più alta tra i docenti. Ne hanno fatto le spese gli studenti, che hanno visto negare dai governi il sacrosanto diritto allo studio e al lavoro sancìto dalla Costituzione; sono state colpite le famiglie, la cui spesa privata per i figli a scuola è cresciuta in modo esponenziale, in assenza di risorse per il diritto allo studio", continua il dirigente sindacale.
Il governo Renzi non ha invertito la rotta sulla scuola, al contrario: "Ci sembra ridurre sempre di più la spesa pubblica, anzichè investire, nella formazione e nella cultura delle giovani generazioni, nonostante i proclami della propaganda. Le risorse stanziate per la scuola sono positive, ma la legge 107 resta un disastro. Nei prossimi anni non si prevede l’aumento degli investimenti in istruzione e ricerca. Anzi, l’ennesima riduzione. Così non può più andare. Occorre alzare il dibattito pubblico sulla qualità della spesa pubblica e il destino delle nuove generazioni, investendo maggiori risorse in settori strategici come la scuola, l’università, la ricerca, e l’alta formazione. Solo così si esce dalla crisi, affermando un modello di società che riduca le disuguaglianze e le ingiustizie", conclude il leader del sindacato della conoscenza.
Cgil: confermata insufficienza politiche istruzione e formazione
I dati "confermano la necessità di una netta inversione di tendenza nelle politiche di istruzione e formazione. Quello più allarmante è riferito ai giovani tra i 20 e i 24 anni che non lavorano e non studiano: tra il 2005 e il 2015 i Neet sono aumentati nel nostro Paese di oltre il 10%, una percentuale significativamente più alta degli altri paesi Ocse. Sebbene dai primi dati Istat sul 2016 emerga una lieve riduzione del fenomeno, in un quadro di pesanti disuguaglianze territoriali e sociali, è evidente che le misure messe in campo finora sono del tutto insufficienti". Questo il commento della segretaria confederale della Cgil Gianna Fracassi all'indagine annuale dell'Ocse Education at a Glance.
In particolar modo Fracassi evidenzia "l'inadeguatezza degli interventi riguardanti l’accesso all’istruzione, visto che anche paesi come Grecia e Spagna sono riusciti a riassorbire nei percorsi formativi una percentuale di giovani disoccupati nettamente superiore alla nostra. L’Ocse stesso - sottolinea la segretaria confederale - suggerisce che in Italia l’istruzione terziaria non è più considerata un investimento sul proprio futuro, utile anche in termini lavorativi: i giovani laureati che trovano un'occupazione sono da noi appena il 62%, contro una media dell’83% nei paesi Ocse".
"Questa disaffezione - spiega - è dovuta sia ai costi legati all’istruzione, significativamente alti nel nostro Paese, che alle difficoltà di inserimento lavorativo per i giovani laureati". Fracassi sostiene che per invertire davvero questo trend negativo è necessario intervenire in due direzioni: "da un lato con maggiori investimenti pubblici in istruzione e forti politiche di sostegno al diritto allo studio", in quanto "anche l’indagine certifica nuovamente che siamo tra gli ultimi nell’area Ocse, con meno del 20% degli studenti universitari che usufruisce di una borsa di studio o agevolazioni sulle tasse". "Dall'altro lato - conclude - è necessario stimolare il mercato del lavoro ad assorbire un numero maggiore di laureati, con politiche che incentivino la valorizzazione delle conoscenze acquisite e dei profili occupazionali maggiormente qualificati".