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Di Giovanni. Come mai Di Vittorio, quando ha fondato la Cgil, ha pensato subito al Patronato? C’era un’idea di Stato che era incapace a gestire il servizio, o un’idea di sindacato che era uno Stato nello Stato?
Pepe. Per comprendere la posizione di Di Vittorio bisogna tener conto sia della sua concezione generale del sindacato, che del rapporto tra sindacato, Stato e lavoratori. E ancor di più bisogna tenere in considerazione la valutazione critica che Di Vittorio faceva, insieme agli altri sindacalisti italiani, tra cui anche Buozzi, di ciò che il fascismo aveva fatto in materia di assistenza e tutela dei lavoratori. Il nodo politico di fronte al quale si trovano Di Vittorio e la Cgil nel momento in cui devono ricostruire un sindacato libero e democratico è fare i conti con l’ambivalenza della struttura sindacale fascista. Che era sì una struttura autoritaria, antidemocratica, ma contemporaneamente si era dotata nel corso degli anni 30 di una serie di organismi volti ad estendere la protezione pubblica, statale al mondo del lavoro. Questo modello era il risultato di una politica di scambio tra lavoratori e datori di lavoro intermediato dallo Stato.
Di Giovanni. Faceva parte della politica del consenso?
Pepe. Sicuramente serviva al regime anche per il consenso, ma era anche interno alle modalità con cui il fascismo cerca di superare la crisi drammatica del ’29. Di fatto era un accordo nel quale il fascismo cercava di scaricare il rapporto tra necessità di accumulazione capitalistica e necessità di contenere il salario diretto, concedendo ai padroni la gestione del salario differito, e ai lavoratori le provvidenze sociali, dalla settimana in gita premio, alla maternità, e altro tutto garantito dallo Stato. Tutte le istituzioni pubbliche che si occupano del lavoro nell’Italia democratica hanno la loro origine storica in questi provvedimenti del fascismo. La classica materia di scambio è il Tfr. Il salario differito garantisce infatti liquidità alle aziende, quello diretto non può essere aumentato ma, per compensare gli operai, si trova la soluzione di dare forma ad enti pubblici per l’assistenza previdenziale e antiinfortunistica, garantiti e amministrati direttamente dallo Stato.
Di Giovanni. Quindi Di Vittorio si trova già di fronte una costruzione di questo genere.
Pepe. Certo, già negli anni 30 tutti gli antifascisti capiscono che il regime in questo senso sta modificando il suo atteggiamento nei confronti del lavoro. Soprattutto gli esuli non possono non rendersi conto che la cosiddetta “terza via” del fascismo, sebbene carica di retorica, aveva un solo fondamento: tentava di rivedere il rapporto tra regime, sindacato e lavoratori fascisti. Una revisione che, pur penalizzando il lavoro, forniva comunque una contropartita. Così, in un regime che era nato sulla violenza squadrista, entra nel gioco dei rapporti sociali l’idea dello scambio, con delle contropartite garantite addirittura dallo Stato. Questo in qualche modo suscita l’attenzione della sinistra, in cui emergono due visioni. Una parte considera questa trasformazione non certamente come il superamento della natura classista del regime, ma non necessariamente ostile in toto al mondo del lavoro, perché all’interno dello Stato il lavoro poteva ottenere delle concessioni. Viceversa, Di Vittorio, che già ha una visione più terzointernazionalista, è più scettico, appartenendo a quella linea di pensiero che in qualche modo è diffidente verso il ruolo dello Stato che si intromette nel lavoro, e sostituisce il potere del sindacato nel governare i lavoratori. Dopo la caduta del regime queste discussioni diventano centrali. Si amplia la differenza tra chi (il filone cattolico e socialista) vuole salvare il rapporto con le istituzioni e le garanzie che i lavoratori avevano ottenuto, unica vera eredità del regime, e chi come Di Vittorio resta scettico. La sua linea è chiaramente ispirata a contrastare questa apertura, considerando il regime nel suo complesso corporativo-istituzionale, come antlavoristico. Nonostante questo, tuttavia, anche Di Vittorio, che aveva come bussola di riferimento la condizione concreta, materiale dei lavoratori, capiva che non si poteva generare l’immediata frattura. Quindi anche lui comincia a ragionare su come, pur confermando la natura libera e democratica dell’adesione al sindacato, e il potere del sindacato distinto dallo Stato, si potesse trovare il modo di recuperare il ruolo di queste istituzioni. In questa operazione di Di Vittorio è molto presente la sua concezione sindacale metapartitica, metapolitica, cioè la concezione per cui in definitiva il rapporto cruciale è quello tra sindacato e lavoratori. Una volta che si afferma la democrazia costituzionale, in cui il lavoro diventando diritto costituzionale è sottratto alla legge ordinaria, Di Vittorio comincia a discutere di come depurare le istituzioni statali dagli elementi fascisti, e di come mantenerle a favore del mondo del lavoro. Lui cerca di mantenere le funzioni pubbliche, assegnandole al sindacato, senza però che il sindacato diventi un pezzo del pubblico. Si tratta di un’operazione complessa.
Di Giovanni. Cosa deve garantire lo Stato democratico in questa visione? Perché non può direttamente garantire le tutele, come avviene nei Paesi del nord Europa?
Pepe. Lo Stato democratico deve garantire il quadro legislativo e normativo, però non può essere quello che garantisce i lavoratori, perché sarebbe una diminutio. Detto in altri termini, il lavoro e la sua tutela per Di Vittorio appartengono al sindacato. Con lo Stato parlamentare il lavoro deve mediare con altre forze sociali, altri interessi, perché qui non parliamo del soviet. Il lavoro si autotutela invece solo esprimendo la sua rappresentanza sindacale, e quindi tra le funzioni del sindacato ci devono essere i contratti, lo sciopero e anche la gestione del tempo libero, le vacanze, la malattia. Per Di Vittorio il sindacato è un organismo a forte base sociale, in cui il riferimento è al lavoratore nel processo produttivo, ma anche prima e dopo il lavoro. Il fascismo aveva dato a tutte queste cose una loro stabilizzazione, ma non poteva essere lo Stato ad appropriarsi di questo. Senza contare che c’era anche un altro versante che poteva risultare “pericoloso” se non si fosse stabilito il ruolo primario del sindacato.
Di Giovanni. Quale?
Pepe. In questa materia c’era una lunga tradizione di paternalismo aziendale e padronale, che a sua volta si poneva il problema opposto a Di Vittorio, cioè sosteneva che non dovesse essere lo Stato a governare il tempo complessivo del lavoro, ma l’azienda, le imprese. In questo modo il lavoro veniva depurato di tutti gli aspetti contestativi, conflittuali, esterni all’azienda, e il padrone poteva giocare su tanti aspetti. Il salario poteva essere sostituito dalla casa colonica, il dopolavoro poteva coprire l’intensificazione della produzione. Di Vittorio conosceva bene la lunga tradizione del paternalismo italiano, che esisteva ancora negli anni 50. La sua battaglia per far tornare tutto il lavoro dentro un controllo sindacale aveva quindi vari fronti. E dunque il sindacato per fare questo si doveva dotare di concrete istituzioni. Non ci si poteva limitare all’ideologia, servivano gli uffici di collocamento, il Patronato, brutalmente tutta la struttura burocratica. Nelle socialdemocrazie era dalla culla alla bara, nei soviet c’era lo Stato, da noi era il sindacato.
Di Giovanni. L’Inca è stato il primo Patronato riconosciuto subito insieme con le Acli. Di Vittorio mostra apertura nei confronti del Patronato cattolico. Nessun conflitto, neanche dopo la scissione sindacale?
Pepe. Il rapporto con le altre organizzazioni è sempre stato positivo, perché nei periodi di più aspro scontro sindacale il terreno del Patronato è bivalente. Da un lato è quello su cui si gioca la partita del consenso, è lì che si forma l’adesione del lavoratore. Lì bisogna esserci, bisogna rispondere ai bisogni dei lavoratori, perché il baricentro di tutto resta il lavoratore. Quindi chiunque offra le tutele per Di Vittorio va bene, non è qualcosa di ostile. L’unità si trovava più facilmente su questo terreno, quello delle condizioni materiali del lavoratore. Questa è la specificità del sindacato, che lo rende ancora oggi così resistente anche di fronte alle forze che lo vorrebbero sopprimere. Nonostante il fatto che molti oggi dicano che il sindacato è finito e che non serve, noi sappiamo che non è così perché solo il sindacato riesce a incidere sulla condizione materiale delle persone.
* Autore di numerosi saggi sul movimento sindacale, Adolfo Pepe è professore di Storia dei partiti e movimenti politici nell’Università degli studi di Teramo e direttore della Fondazione Giuseppe Di Vittorio.