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Nell’aumento delle disuguaglianze registrato negli ultimi trent’anni la tecnologia ha svolto un ruolo tanto importante quanto difficile da documentare con precisione. Il cambiamento tecnologico ha preso la forma della diffusione delle tecnologie dell’informazione e comunicazione (Ict), un nuovo “paradigma tecnologico” che vede ora un’accelerazione con l’affermarsi della digitalizzazione, dell’automazione, di piattaforme globali per le attività economiche fondate sulla rete. Il fatto è che il cambiamento tecnologico non è neutrale: i suoi effetti tendono a dispiegarsi in modo asimmetrico in termini di impiego e remunerazione di lavoro e capitale, tra i gruppi sociali, tra le imprese, tra le aree geografiche. Il cambiamento tecnologico riflette i rapporti di potere esistenti e contribuisce alla loro evoluzione, con conseguenze rilevanti sulla distribuzione del reddito.
Gli studi sull’evoluzione della disuguaglianza funzionale hanno documentato come negli ultimi tre decenni nei maggiori Paesi occidentali la quota dei salari nella distribuzione del reddito abbia perso tra 10 e 15 punti percentuali a favore di quella dei profitti (M. Franzini, M. Pianta, “Disuguaglianze: quante sono, come combatterle”, Laterza, 2016). La tecnologia ha contribuito a questo spostamento, operando attraverso diversi meccanismi: la creazione di nuovi prodotti e nuovi mercati ha favorito la crescita dei profitti; l’introduzione di innovazioni di processo ha ridotto il peso contrattuale del lavoro, alimentando la disoccupazione tecnologica e comprimendo i salari.
Parallelamente a ciò, l’evoluzione delle istituzioni del mercato del lavoro è andata verso una crescente “flessibilizzazione”, indebolendo il potere contrattuale dei lavoratori e favorendo ulteriormente il contenimento e la riduzione dei salari. Un’importante divaricazione a cui abbiamo assistito è quella tra dinamica della produttività del lavoro (che incorpora il contributo che viene dal cambiamento tecnologico) e dinamica dei salari. Il grafico che segue – tratto dall’Ilo Global Wage Report del 2015 e relativa alle 36 maggiori economie dal 1991 in poi – mostra come la crescita della produttività non si sia tradotta in un analogo incremento dei salari.
Diverse analisi empiriche concentratesi sulla relazione tra cambiamento tecnologico e dinamica di salari e profitti nelle industrie europee hanno messo in luce come la crescita dei profitti sia stata significativamente superiore a quella dei salari sia nei settori ad alta sia in quelli a bassa tecnologia. I salari tendono a crescere più velocemente nei settori in cui la spesa per l’innovazione (in gran parte dovuta ai salari per i lavoratori a elevate competenze) è più cospicua, mentre i profitti sono sostenuti sia dall’importanza dei nuovi prodotti e del potere di mercato, sia dalla ristrutturazione attraverso la diffusione di nuovi processi e il contenimento dei salari legato alla perdita di occupazione.
Troviamo così che il cambiamento tecnologico ha l’effetto generale di favorire i profitti rispetto ai salari. Altri studi hanno approfondito quest’analisi considerando anche il ruolo della delocalizzazione produttiva e distinguendo i salari per gruppi di lavoratori con diversi livelli di istruzione. I risultati mostrano che la possibilità di delocalizzare parti del processo produttivo favorisce i profitti, con un ulteriore effetto negativo sui salari, a eccezione di quelli dei lavoratori ad alta competenza (F. Bogliacino, D. Guarascio e V. Cirillo, “The dynamics of profits and wages: technology, offshoring and demand”, Industry and Innovation, 2017). La relazione tra tecnologia e redditi è quindi il risultato delle caratteristiche della forza lavoro, della localizzazione delle produzioni e della natura dell’innovazione, di processo o di prodotto.
Disparità crescenti nella distribuzione dei salari sono emerse da analisi empiriche settoriali. I settori ad alta tecnologia e, in particolare, quelli dove è intensa l’innovazione di prodotto, sono caratterizzati da livelli medi e da tassi di crescita dei salari più alti rispetto al resto dell’economia. La polarizzazione salariale tra lavoratori a qualifiche alte e medio-basse all’interno dei settori risulta maggiore dove sono più importanti le innovazioni di prodotto, dove c’è una crescita elevata dell’occupazione e una quota significativa di lavoratori con una formazione universitaria e alte competenze.
Nei settori con maggiori opportunità di espansione aumentano così le diseguaglianze salariali tra chi – i lavoratori con alte qualifiche – riesce a catturare parte dei benefici di innovazione e crescita e chi – i lavoratori con basse qualifiche – vede peggiorare la propria posizione relativa a causa della minore rilevanza delle competenze che è in grado di offrire. Questo processo è in parte stimolato dall’intreccio di innovazione tecnologica, frammentazione internazionale della produzione e modificazioni nell’organizzazione del lavoro e nelle relazioni industriali.
Da un lato, il combinato disposto di intensa innovazione, individualizzazione delle relazioni industriali e riduzione della capacità d’agire delle organizzazioni sindacali può favorire la posizione dei lavoratori ad alte competenze (maggiormente in grado di negoziare individualmente la loro condizione lavorativa), garantendo loro una quota della “rendita tecnologica” connessa all’introduzione di innovazioni. Al contrario, i lavoratori con basse qualifiche possono essere posti sotto pressione dal rischio di delocalizzazione delle parti del processo produttivo ove questi operano (segmenti di processo tendenzialmente caratterizzati da bassa intensità tecnologica), vedendo ridotta la loro capacità contrattuale in termini salariali e di condizioni di lavoro.
Similmente, un processo di compressione salariale può emergere nei settori dove a prevalere è l’innovazione di processo e pesano di più i lavoratori con qualifiche medio-basse. È rilevante far notare, infine, come la relazione tra tecnologia e disuguaglianza possa assumere una direzione di causalità opposta a quella sin qui trattata. La capacità delle imprese di introdurre innovazioni può dipendere dalla qualità della conoscenza disponibile all’interno dell’impresa stessa, nonché dall’esistenza di un clima organizzativo favorevole alla circolazione delle idee e alla cooperazione tra lavoratori e tra gli stessi e l’impresa. I livelli salariali riflettono anche questi fattori di “qualità” del lavoro; le imprese e i settori che si caratterizzano per strategie competitive basate sui bassi salari, sulla compressione dei costi, sullo scarso investimento nelle competenze della forza lavoro e sull’uso di forme contrattuali temporanee tendono ad avere una capacità d’innovazione relativamente più bassa.
Il cambiamento tecnologico si rivela dunque un fattore in grado di incidere sulle dinamiche distributive lungo una molteplice serie di dimensioni, con esiti che possono operare in modo cumulativo, compensarsi o variare a seconda delle caratteristiche strutturali – composizione e caratteristiche della struttura produttiva e di quella occupazionale –, istituzionali e macroeconomiche. Anche se le disuguaglianze nei redditi personali in Italia sono il risultato di numerosi altri fattori connessi alla dinamica macroeconomica, ai contenuti del lavoro e alla natura delle istituzioni, la tecnologia sembra emergere quale elemento rilevante che, attraverso molteplici dimensioni, ha contribuito all’aggravarsi delle disparità di reddito osservate nel recente passato.
Dario Guarascio è ricercatore presso l'Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche (Inapp); Mario Pianta è professore di Politica economica all’Università Roma Tre