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A che punto è la crisi? Sono 10 anni ormai che questa domanda viene posta da tutti gli osservatori economici in giro per il mondo, istituzionali e non, con lo scopo principale di riprendere a crescere, correggendo gli squilibri macroeconomici all’origine della stessa crisi. Anche la Cgil iniziò la sua ricerca istituendo il Forum dell’economia proprio su tale quesito, per studiare approfonditamente le cause e le soluzioni della nuova “grande trasformazione” del capitalismo, a partire da quello nazionale ed europeo. Con questo spirito sono stati elaborati tutti gli studi e le elaborazioni a sostegno del Piano del lavoro.
Di fatto, nell’ultimo periodo l’economia globale è tornata a crescere a ritmi più sostenuti: il Fmi stima una variazione del Pil mondiale del 3,7% per quest’anno e del 3,8% per il prossimo. Gli indici del volume del commercio internazionale sono positivi e più “elastici” rispetto al Pil (che è buon segno, al contrario di quanto avvenuto negli ultimi 7 anni). Come indicano le ultime previsioni della Commissione europea, la stessa crescita dell’economia dell’Ue nel triennio in corso dovrebbe essere sospinta dalle esportazioni. Medesima previsione vale per l’economia italiana, anche se con il ritmo di crescita stimato colloca il nostro Paese all’ultimo posto della classifica del Vecchio continente.
Cosa c’è allora che non va? Innanzitutto, va ricordato che la crescita media nasconde una divergenza fortissima tra aree del pianeta e all’interno delle stesse. Basti pensare ai saldi correnti delle bilance dei pagamenti dei Paesi che compongono l’Unione europea (nel 2015, agli estremi c’erano la Germania, con un avanzo commerciale di 8,5 punti percentuali, e il Regno Unito, ancora in Europa, con un disavanzo di -5,2 punti). Le nubi che si scorgono all’orizzonte, però, sono cariche di instabilità (tensioni geopolitiche, incertezze nella politica economica Usa, Brexit, riduzione del Quantitative Easing da parte della BCE ecc.) e gettano un’ombra sul contributo alla crescita delle cosiddette variabili esogene su cui si basano i modelli previsionali, cioè commercio mondiale, tassi di cambio, prezzo delle materie prime.
Non solo. Molte economie avanzate sono ancora lontanissime dal recupero dei posti di lavoro perduti nella crisi (come l’Italia, che è terza per tasso di disoccupazione dopo Spagna e Grecia in tutta l’Ue-27). Molte altre, invece, hanno ritrovato il tasso di disoccupazione pre-crisi, ma senza la stessa qualità e stabilità del lavoro (in primis, gli Stati Uniti e la Germania). Non a caso, il dibattito accademico e, sempre più, anche quello politico sono tornati a misurare gli squilibri macroeconomici attraverso gli indici di disuguaglianza, da cui risulta che la distribuzione del reddito e della ricchezza è divenuta sempre più iniqua, deprimendo consumi e investimenti potenziali.
Negli ultimi anni anche l’Ocse e il Fmi – che da sempre rappresentano i massimi riferimenti istituzionali dell’economia internazionale – hanno pubblicato numerosi documenti che evidenziano i limiti di un modello di crescita globale sbilanciato sul mercato, sull’offerta, sul capitale. Secondo il recente World Economic Outlook del Fondo monetario, la crescita dei salari e dell’inflazione “può rimanere modesta fino al riassorbimento dell’occupazione precaria e dei part time involontari. Ricordiamo che l’Italia è prima in Europa per incidenza del part time involontario, seconda per quella del lavoro indipendente (dopo la Grecia), terza per quella del lavoro temporaneo (dopo Francia e Spagna).
Eppure, malgrado l’imponente attività scientifica di questi anni abbia contribuito a rendere tale consapevolezza diffusa, non sembra essere comune a tutti i principali attori economici un’analisi critica della “ripresa” e del modello di sviluppo. Anzi, appare stupefacente come l’approccio (neo)liberista sia ancora prevalente nei circuiti accademici e, soprattutto, nei consessi politici e istituzionali. Austerità e svalutazione competitiva segnano ancora il passo delle politiche economiche nazionali ed europee.
Nonostante il palpabile insuccesso, riduzione del perimetro pubblico e compressione dei diritti identificano le cosiddette riforme strutturali raccomandate dalle istituzioni europee. Purtroppo, a leggere anche i documenti programmatici del governo e la legge di bilancio 2018-2020 – nonostante le elezioni legislative alle porte – bassi salari e alta disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile, non rappresentano priorità da risolvere per la politica economica italiana, almeno fino al prossimo decennio.
La “resilienza” del pensiero economico liberista si può riscontrare anche nella distanza fra la retorica della ripresa che diffondono impunemente le forze politiche al potere e la sofferenza della stragrande maggioranza delle persone, dei cittadini, dei lavoratori, dei pensionati. Distanza che crea un vuoto di legittimità delle istituzioni e della stessa democrazia, alimentando pericolosi populismi e nazionalismi, che intercettano – senza tradurla nel modo giusto – proprio la domanda di sicurezza, di certezza, di equità.
Della ripresa del modello di sviluppo sbagliato e dei difetti del pensiero economico dominante si è parlato anche a Edimburgo (21-23 ottobre scorso), all’annuale conferenza dell’Institute for new economic thinking (Inet, l’istituto fondato nel 2009 con lo scopo di “alimentare una comunità globale di leader economici di prossima generazione, generare un nuovo pensiero economico e ispirare la professione economica per affrontare le sfide del XXI secolo”), dove era presente anche la Cgil. Secondo i più importanti economisti “eterodossi” delle economie avanzate (compresi alcuni premi Nobel come Stiglitz, Akerlof, Heckman e Spence), gap occupazionale e bassi salari – intesi anche come lavoro povero o precario – rappresentano le cause delle disuguaglianze all’origine della crisi e ancora oggi i principali vuoti di domanda che impediscono all’economia globale di riassorbire gli squilibri macroeconomici, la deflazione, l’iperfinanziarizzazione e l’incremento dei debiti pubblici.
Da qui bisogna partire per riformare il capitalismo e trovare un modello alternativo di crescita e sviluppo del pianeta, al fine di comprendere e correggere le grandi tendenze globali in atto – rallentamento demografico, globalizzazione produttiva, nuove tecnologie e cambiamenti climatici – che paventano una “crisi infinita” o il rischio di una “stagnazione secolare”: in poche parole, dal ruolo economico degli Stati e delle istituzioni sovranazionali, dai rapporti di forza e dall’importanza del dialogo sociale, della contrattazione e delle stesse organizzazioni sindacali. Non bisogna arrendersi alla capacità di resistenza delle politiche liberiste. Il capitalismo delle disuguaglianze, della povertà, dello sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, dei conflitti commerciali e della competizione sui costi, della speculazione e delle disuguaglianze, ora gioca in difesa. La battaglia politica e culturale è appena iniziata.