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“Guardo allo squilibrio come all’altra faccia dell’equilibrio: i due termini si reggono vicendevolmente, perché non sarebbe possibile alcuna nozione di equilibrio, se non ci fosse la possibilità dello squilibrio. Ciò che viene trattato come squilibrio è in realtà il continuo cambiamento nell’economia, dovuto all’incessante dinamica sia nell’offerta sia nella domanda…” (P. Leon, 2014, Il Capitalismo e lo Stato, ed. Castelvecchi). Equilibrio e squilibrio sono la cartina interpretativa delle idee di Paolo fin dai tempi dei suoi primi lavori: Ipotesi sullo sviluppo dell’economia capitalistica (1965, Boringhieri), Structural change and growth in capitalism (1967, ed. Johns Hopkins Press), L’economia della domanda effettiva, (1981, ed. Feltrinelli).
Gli anni seguenti hanno consolidato la ricerca sul ruolo e il peso dell’economia pubblica. In ordine di tempo possiamo ricordare: Stato, mercato e collettività (2003, ed. G. Giappichelli) e Il Capitalismo e lo Stato, di cui sopra, assieme al saggio Banche e Stato presente nella pubblicazione a cura di L. Pennacchi e R. Sanna, Riforma del capitalismo e democrazia economia (2015, ed. Ediesse).
Paolo Leon è stato il primo a legare consumo ed investimento aggregato alla legge di Engel (al variare del reddito si consumano beni diversi). Infatti, sebbene senza adeguati investimenti il reddito complessivo sarebbe inferiore a quello necessario per avvicinare la piena occupazione, occorre un investimento particolare e non un investimento qualsiasi: quello che produce beni e servizi direttamente legati alla crescita del reddito e quindi dei consumi.
Più in dettaglio, Leon analizzava la dinamica di struttura e quella che definiva “tecnica superiore di produzione”, evidenziando come la persistenza di un problema di domanda effettiva sia intimamente legato alla natura evolutiva della produzione e dunque dell’offerta: il mercato cambia se stesso e modifica la tipologia dei beni prodotti e la loro domanda, con delle conseguenze nei rapporti economici tra gli agenti all’interno dello stesso paese, del mercato interno del lavoro e del mercato monetario.
Allo stesso modo, nella sua visione in discussione non era la distribuzione del reddito in senso stretto, che comunque concorre a modificare quali-quantitativamente la domanda, quanto, il sistema economico nel suo complesso: all’inizio la domanda soddisfa bisogni primari, successivamente i beni primari lasciano il posto alla produzione di beni secondari, andando più avanti la domanda si manifesta nei beni terziari e/o servizi. Sostanzialmente il reddito aggiuntivo e la conseguente domanda alimentano nuovi bisogni che inizialmente non erano concepibili, e tale domanda deve trovare una corrispondente offerta da parte del sistema produttivo (tecnica superiore di produzione).
L’insegnamento di Leon è dirimente soprattutto per i nostri giorni: “Nessuno può negare che esista una relazione tra fattori della produzione e prodotto al livello dell’economia; ma che forma ha questa funzione, in che modo agiscano su di essa le variazioni dei salari e dei profitti ed il progresso tecnico, è impossibile stabilire a priori con il modello marginalista” (P. Leon, 1965). Sostanzialmente la crescita equiproporzionale dei diversi settori non è giustificabile.
La scelta pubblica immaginata da Leon prefigura uno Stato grande nelle idee e nei progetti: “Le scelte, in termini di investimenti, delle imprese pubbliche e, in quanto controllabili, di quelle private, non possono essere condotte sulla base di un saggio generale del profitto (o dell’interesse, o sulla base di un determinato costo-opportunità del capitale) stabilito a priori senza la giustificazione di un completo modello disaggregato di lungo periodo” (P. Leon, 1965). Il punto è centrale: “Lo scopo è di far risaltare la necessità della domanda effettiva come determinate dell’offerta…. Così chi crede che l’investimento sia l’elemento autonomo per eccellenza, è poi spinto a cercare i fattori che lo determinano… ritrovando per altra via la legge di Say” – è l’offerta che crea la sua domanda – (P. Leon, 1981).
Lo Stato, il mercato e la collettività. “L’esistenza di leggi macroeconomiche, non riconducibili alla decisione dei singoli, è un segnale che lo Stato è autonomo rispetto al mercato, come l’incontro tra individui che scambiano beni e servizi, e che modelli basati su individui proprietari e razionali come originari regolatori della società sono insufficienti”. In altri termini, “una legge macroeconomica generale, come quella del moltiplicatore, non può rientrare nell’ambito della conoscenza individuale: solo lo Stato è in grado di servirsene” (P. Leon, 2003).
Un insegnamento prezioso e legato a come funziona realmente il sistema economico. Un tratto ben presente anche nella sua penultima fatica (P. Leon, 2014), quando si domanda: è l’inizio della fine di un paradigma, più precisamente del paradigma reaganiano-thatcheriano che ha costruito un particolare equilibrio tra stato e capitale? Il paradigma (reaganiano-thatcheriano) ha la forza endogena per rigenerarsi e quindi perpetuarsi? Leon discute delle nuove istituzioni del capitale, consapevole che qualcosa di quello caduto in disgrazia rimarrà per sempre. Tutto ciò ci riporta al ruolo dello Stato nel capitalismo post-liberista e del modello di governo in una economia globale. Un rapporto capitale-Stato da ricostruire interamente. Infatti, “il capitalismo… è un modo di essere delle società che non si distrugge nelle crisi, ma evidentemente si trasforma e, una volta trasformato, dà luogo a una nuova cultura capitalistica e a nuovi rapporti tra i capitalisti e lo Stato e tra gli stessi capitalisti”.
Poco prima di lasciarci Leon ha offerto un altro contributo: I poteri ignoranti, 2016, ed. Castelvecchi. La sintesi potrebbe essere: accumulazione e sviluppo sembrano essere entrati in conflitto aperto. Da un lato, le scorciatoie che conducono a una chiusura mercantilistica sono vicoli ciechi; dall’altro, la radicale ignoranza con cui i poteri pubblici affrontano le questioni economiche, impedisce di percorrere vie d’uscita alternative e non conduce ad immaginare un nuovo ruolo dello Stato e politiche economiche differenti. Nel mezzo uno iato: lo spazio per una scienza economica che non rinuncia a voler cambiare le cose. Anche alla fine del suo lavoro è stato capace di suggerire un inedito terreno di riflessione.
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