PHOTO
Nuovi dati allarmanti sull’università italiana resi noti dal ministero dell’Istruzione. Dall’anagrafe degli studenti risulta che rispetto all’anno accademico 2004-2005 i diplomati che nell’anno corrente hanno deciso di proseguire gli studi sono diminuiti del 27,5 per cento su base nazionale. I picchi come era prevedibile sono a Sud, dove la situazione è ancora più critica: -56% Abruzzo, Molise -52,3 %, Sicilia - 50,7% , Basilicata -49,4, Calabria -43,8%.
Di dati preoccupanti che riguardano lo stato di salute delle nostre università se ne potrebbero citare tanti e da fonti diverse: quasi il 40% degli studenti che intraprendono un corso di primo livello non conclude gli studi e dopo il primo anno circa il 15% abbandona gli studi nella triennale e altrettanti decidono di cambiare corso. Inoltre, solo un terzo degli studenti di un corso triennale e il 40% degli studenti di un corso magistrale di second di livello conclude gli studi nei tempi previsti
Duro il commento degli studenti: “Questa drammatica situazione – afferma Alberto Campailla, portavoce di Link – Coordinamento Universitario – non può stupirci. Essa infatti è il risultato di precise politiche portate avanti nel corso degli anni da tutti i governi che si sono succeduti. In sei anni di tagli l’università ha perso quasi un miliardo di risorse e anche per quest’anno il Ffo è in calo di ben 87 milioni. Come se non bastasse i tagli del fondo 2015 non saranno gli ultimi, dato che nel Def sono previsti 32 milioni in meno sul Ffo ogni anno da qui al 2023”.
Sulla stessa lunghezza d’onda Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Udu: “Il dato sugli iscritti complessivi (-71.784 in un solo anno pari ad un calo del 4,23%) ci dice chiaramente che senza interventi immediati e strutturali l’università italiana rischia di morire definitivamente. Il crollo degli studenti non è dovuto solo al calo degli immatricolati o al numero di laureati, anch’essi per la prima volta in calo, ma deriva anche da un tasso di abbandono che continua ad aumentare in modo esponenziale dall’ultima riforma Gelmini ad oggi. Non è un caso infatti che si tratti del dato più alto in assoluto di un trend negativo iniziato proprio nel 2010 e che ha portato gli iscritti totali del nostro sistema universitario a passare da 1.787.752 del 2010-11 agli attuali 1.624.208. Un dato che, se confermato, riporterebbe l’università italiana indietro di 10 anni.”
L’università, insomma, nonostante che tutti gli studi e i rapporti, l’ultimo quello di AlmaLaurea, confermino che continui a offrire le maggiori chance occupazionali e livelli di reddito più alti, sembra avere un sempre minore appeal per gli studenti e, soprattutto, per le famiglie che evidentemente non reputano più questo investimento conveniente soprattutto in un momento di crisi come questo. Pesa molto, su questo aspetto, il cronico ritardo e la mancanza di investimenti del nostro paese sul diritto allo studio, unica leva in grado di livellare le differenze di provenienza geografica e sociale. I dati disponibili sono sconfortanti: in Italia solo l’8 per cento degli studenti usufruisce di borse di studio; una quota che sale al 18, 19 e 27 per cento rispettivamente in Germania, Spagna e Francia. Solo quest’anno, ben 46.000 studenti risultati idonei all’assegno – per merito e livello economico – sono rimasti all’asciutto. E molti temono che i nuovi criteri di calcolo dell’Isee finiscano pe restringere ancor di più una platea già assai esigua.
Questi dati si inseriscono su quello più generale del progressivo disinvestimento su università e ricerca. In Italia la spesa in istruzione terziaria in rapporto a numero degli studenti è inferiore del 30% alla media dei paesi Ocse. Le risorse pubbliche investite in ricerca sono circa lo 0,52% del Pil, 0,18% in meno rispetto alla media Ocse. Si tratta solo di alcuni decimi di punto di differenza che corrispondono però a circa 3 miliardi di euro, ovvero il 30% delle risorse pubbliche oggi investite. Anche il Fondo per il finanziamento ordinario delle università (il Ffo) che per gli atenei rappresenta l’entrata principale, si è progressivamente ridotto negli anni: da 2009 in poi si è registrato un significativo taglio delle risorse, sia in termini nominali sia reali (rispettivamente -13 e -20%). Quest’anno il fondo è sceso da 7.010 a 6.923 miliardi, con una perdita secca di ben 87 milioni.
Insomma, l’università vive in un contesto di abbandono e di costante riduzione anche del personale che genera minore offerta e minore qualità e dunque atrattività. Grazie alla riforma Gelmini e al blocco del turn-over negli ultimi sei anni i docenti sono scesi del 22%. Mentre nei paesi Ocse c’è un insegnante ogni 15,5 studenti, in Italia il rapporto è di uno ogni 19. C’è insomma bisogno di investire e ridurre sprechi laddove ci sono.
“L’università italiana sta morendo e perde migliaia di studenti ogni mese – conclude Scuccimarra –. Di fronte a questo massacro pensare a una ‘Buona Università’ nata nelle stanze di partito e senza contatto con il mondo universitario sarebbe follia. È ormai indispensabile affrontare le vere priorità dell’università, a partire dalle condizioni degli studenti: finanziamento reale del diritto allo studio da portare a livelli europei, riforma della tasse universitarie per ridurle e introdurre criteri uniformi di progressività ed equità a livello nazionale ed eliminazione dei numeri programmati per favorire l’iscrizione. Se questo non accadrà, se ancora una volta prevarranno slogan e visioni ideologiche, il “punto di non ritorno” per l’Università pubblica si avvicinerà inesorabilmente”.