GENOVA - Il boom dei container – nonostante la crisi di alcuni gruppi, come quella della coreana Hanjin – settima compagnia mondiale nel settore delle navi portacontainer – ha provocato il declino delle merci varie, che a loro volta generavano un maggiore tasso di occupazione. Comprese le merci avariabili, come la frutta, che ormai viaggiano anch’esse in container appositamente attrezzati. Così si è addensato di fosche nubi il futuro del terminal Rinfuse – il nome dice tutto –. Non si sa se anche quest’area finirà per essere soppiantata dai container oppure se avrà ancora spazio nella nuova economia del porto di Genova.

Il traffico delle rinfuse – spiega Tirreno Bianchi, console della Compagnia Pietro Chiesa, quella che organizza il lavoro in questo settore (e quindi i suoi soci sono quelli più a rischio dal punto di vista occupazionale) – rappresenta da sempre un segnale della ripresa del Paese, perché gran parte del materiale scaricato è legato alle costruzioni, notoriamente volano dell’economia, seppure in buona parte inquinante. Ormai importiamo solo prodotti raffinati, ma ciò non toglie che la crisi delle rinfuse sia lo specchio della crisi più generale”.

Il colloquio con il console Bianchi ha luogo nella sede storica della Pietro Chiesa, che a sua volta può fregiarsi del titolo di “mitica Compagnia”. A differenza del Palazzo della Culmv, a San Benigno, ampio, luminoso e tecnologizzato, l’edificio porta però tutti i segni più evidenti del tempo, anche se i ponteggi che lo circondano fanno sperare in una prossima e consistente ristrutturazione: muri grigi, nessun ascensore, mattonelle consunte – “ma sono quelle originali degli anni trenta”, fa notare Bianchi mentre saliamo affannati al terzo piano del caseggiato dove ha sede la direzione della Compagnia, con le sale piene di cimeli e testimonianze di un passato glorioso. “La Pietro Chiesa – racconta Bianchi, tradendo un pizzico di nostalgia – era la più importante formazione del porto, quando fu fondata nel 1893, e arrivò a contare 5 mila persone nel momento di maggiore espansione. Il carbone era la fonte energetica delle navi e del Paese e lo spirito del nostro lavoro era quello delle grandi cooperative di Liverpool e di altri porti europei, che si ribellavano alla strapotere dei caporali e al supersfruttamento”.

Nacque allora la storia ammantata di leggenda dei “carbunìn” o “carbuné”, i lavoratori coperti di fuliggine che scaricavano dalle navi sacchi o ceste di carbone camminando in precario equilibrio su traballanti passerelle. Il lavoro a quei tempi era gestito e distribuito dai caporali, che allora erano chiamati “confidenti” – “le agenzie interinali” di oggi, commenta sarcastico Bianchi, mentre ripercorre la storia della Compagnia –. I confidenti facevano il bello e cattivo tempo nel porto e nelle bettole dell’angiporto, di cui erano proprietari. Spesso capitava che i lavoratori restituissero tutti i loro guadagni a questi personaggi, che approfittavano della distanza dai luoghi di campagna e di montagna da cui provenivano gran parte dei lavoratori per farli mangiare, bere, dormire e “divertire” a prezzi di strozzinaggio. Poi arrivarono il socialismo, i sindacati e le prime Camere del lavoro.

Pietro Chiesa, un verniciatore delle ferrovie di origine piemontese, diventò l’anima del movimento operaio portuale assieme a Gino Murialdi, che scrisse il primo statuto della cooperativa – prima che la Pietro Chiesa si trasformasse, ai tempi del fascio, in Compagnia (termine che si adattava meglio allo spirito delle corporazioni) – dei lavoratori del porto. A Pietro Chiesa, che fece giungere in Parlamento le istanze dei lavoratori del porto in qualità di deputato eletto in Liguria, fu comunque intitolata la Compagnia dopo la breve parentesi in cui il fascismo le impose il nome di Filippo Corridoni.

Nel periodo di massimo splendore della Compagnia, il palazzo della Pietro Chiesa ospitava ambulatori di primo soccorso, una barberia (chiusa negli anni ottanta), bar e una mensa aperta a tutti i lavoratori del porto. Erano i tempi in cui lo specchio d’acqua davanti alla Lanterna si chiamava idroscalo e da lì partivano gli idrovolanti della linea Genova-Londra. La Compagnia era un modello non solo per lo spirito di solidarietà e di socialità che la distingueva (un tempo c’era l’usanza di mangiare tutti insieme stoccafisso e gorgonzola una volta alla settimana), ma anche per tutto ciò che riguardava la salute e la sicurezza, ispirandosi alla legislazione del lavoro di Paesi allora remoti, come il Wisconsin e la Nuova Zelanda.

Ma questa ormai è acqua passata. Nel dopoguerra, con il passaggio dal carbone al petrolio, la Compagnia si assottigliò fino a raggiungere il minimo storico di sette persone, che lavoravano tutte per la centrale Enel. Nei picchi di lavoro, se c’era necessità, ci pensava la Culmv (Compagnia unica fra i lavoratori delle merci varie) a inviare i suoi camalli come rincalzo. Fino agli anni novanta, con la riforma del lavoro nei porti e la trasformazione della Pietro Chiesa in società cooperativa di diritto privato, con la conseguente nomina a console di Tirreno Bianchi, proveniente dalle file della Culmv. I lavoratori della Compagnia risalirono fino a 97 nel 2005, ma da allora ebbe inizio un declino ininterrotto.

Oggi i lavoratori della Pietro Chiesa sono ridotti a 33, alcuni non più giovanissimi, di cui 26 soci e otto tra dipendenti e personale amministrativo. Il lavoro rimane sempre quello “a chiamata”, ieri con il numero di matricola urlato, oggi con il megafono e gli sms, ma sempre di lavoro a chiamata e di lavoro manuale si tratta. “Il materiale lo scarichi con le macchine – spiega ancora Bianchi –, ma poi quello che rimane lo devi raccogliere a mano. E devi lasciare la stiva pulita usando pale e raschietti, perché nelle intercapedini la pompa non arriva”.

Di nuove assunzioni, di turnover e, naturalmente, di stoccafisso e gorgonzola neanche a parlarne. “Il fermo della centrale Enel – ammette Bianchi – ci crea serie difficoltà, perché finora ha determinato un terzo delle entrate del nostro fatturato. Ora dovrebbero rendersi disponibili i fondi di solidarietà, ma abbiamo a che fare con un moloch come l’Inps e non è dato sapere cosa succederà. D’altronde, ne avremmo diritto, perché sul nostro stipendio viene effettuata una trattenuta dello 0,90 per cento a titolo di contributo di solidarietà, per il quale non riceviamo alcun corrispettivo in termini di cassa integrazione. Abbiamo utilizzato la cassa in deroga, che però ha effetto dopo un anno di attesa e nel frattempo ci paghi sopra le tasse”.

L’attività svolta dai lavoratori della Compagnia è per sua natura flessibile, “ma questa flessibilità – sottolinea il console della Pietro Chiesa –, accresciuta ulteriormente dalle nuove modalità di lavoro nel porto, che rendono meno prevedibile e programmabile l’intervento sulle navi porta container, non è riconosciuta in termini economici, né dallo Stato, né dalle imprese terminaliste”. Senza dimenticare un aspetto che ha a che vedere con la normativa imposta alla Compagnia dalla legge 84/94, quella che ha riformato il lavoro nei porti. L’attività della Pietro Chiesa, in particolare, non risponde al dettato dell’articolo 17, che ha introdotto l’Istituto del mancato avviamento (Ima) a vantaggio della Culmv, ma a quello dell’articolo 16, che – detto in soldoni – si applica alle imprese “pure”, qual è appunto considerata la Pietro Chiesa, e che quindi attribuisce loro la totale responsabilità di tutto ciò che avviene durante il lavoro.

In altre parole, pur trattandosi in entrambi i casi di cooperative cui è affidato il lavoro nel porto, la Culmv è tutelata da quell’istituto in caso di mancato avviamento ed è “irresponsabile” in termini di sicurezza, mentre la Pietro Chiesa, che pure ha goduto di maggiori vantaggi ai tempi delle vacche grasse, soprattutto in termini di gestione del tempo, non ha diritto ad alcuna integrazione quando il lavoro latita, com’è appunto il caso di oggi, e risponde in proprio per qualsiasi incidente che colpisca il personale.

Non solo. L’articolo 16 impone una serie di vincoli territoriali e merceologici alla Pietro Chiesa, “in parte imposti, in parte accettati per quieto vivere”, spiega Bianchi, che di fatto hanno ridotto i margini di guadagno. A questo riguardo, c’è da considerare anche la questione tariffe, che sono piuttosto rigide e comprendono costo del personale, macchine, struttura organizzativa, assicurazioni e altro (storicamente facevano riferimento al contratto nazionale). Tutte condizioni che spingono verso una potenziale concorrenza tra Pietro Chiesa e Culmv, una “guerra tra poveri”, se è lecito usare questa espressione.

Bianchi preferisce parlare di consorzio, di organico, di co-partecipazione tra autorità portuale e terminalisti, di organizzazione del lavoro nel porto da concordare insieme alla Culmv, per avere maggiore sicurezza organizzativa e salariale, “non legata alla pura quotidianità”, e che consenta in sostanza di mantenere inalterate le prerogative di ciascuna compagnia. Ma, per allontanare lo spettro della chiusura o della vendita ai privati, che segnerebbero in ogni caso la fine di una storia gloriosa, si parla anche di un possibile assorbimento della Pietro Chiesa nella Culmv, con tutti gli annessi e connessi che ne deriverebbero. E che non sono pochi, a cominciare dall’applicazione del famoso articolo 17.