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Pubblichiamo una serie di nostri articoli "best of 2012", tra quelli che ci sono piaciuti di più o ci sono sembrati significativi.
Sarebbe riduttivo circoscrivere al fenomeno mafioso gli interessi di Salvatore Lupo: il suo L’unificazione italiana, edito da Donzelli, è tra i lavori più significativi usciti in occasione dei 150 anni dell’unità. Ma lo storico siciliano – docente all’università di Palermo – ha fornito un contributo assai importante allo studio della questione: la Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri (sempre Donzelli, 1993 e 2004) è tra i migliori contributi in materia, così come di grande interesse è il più recente Potere criminale. Intervista sulla storia della mafia, a cura di Gaetano Savatteri (2010). Opportuno chiedere a lui, quindi, nel ventesimo anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio, una riflessione su quell’anno cruciale, il ’92, sui successi e le sconfitte dell’azione di contrasto dello Stato, sulle speranze dell’oggi.
Il 1992, dunque, anno di svolta non solo nella storia della mafia ma anche – le stragi intrecciate a Tangentopoli, all’inizio del crollo della prima repubblica – per l’intera vicenda nazionale. Condivide questo giudizio? chiediamo al nostro interlocutore. “Sì – risponde – il 1992 è sicuramente un anno di svolta. Ma non si deve esagerare. In quell’anno, guardando a Cosa nostra, vengono a compimento processi avviati già da tempo”.
“Quali? Due, essenzialmente. Il primo è l’escalation, che comincia nel ’79, dei delitti cosiddetti eccellenti: Boris Giuliano e Rocco Chinnici, Piersanti Mattarella e Gaetano Costa, e poi Pio La Torre e il generale Dalla Chiesa, solo per ricordarne alcuni. Un’escalation parallela alla guerra intestina di Cosa Nostra, e che prende corpo, questo è il punto, perché lo Stato ha avviato il suo riarmo”.
“Il secondo processo – prosegue – è, mi si perdoni il bisticcio di parole, il maxiprocesso di Palermo: con i mafiosi in gabbia…”. Un evento, 1986-87, la cui importanza forse non viene ricordata a sufficienza. “È vero, fu un fatto decisivo. Innanzitutto perché i mafiosi, dicevo, erano in gabbia: li avevano catturati ed erano lì nell’aula bunker, cosa per niente scontata, vista la lunga storia di latitanza cui eravamo abituati. E fu decisivo, ancora, perché si processarono non solo i singoli, per i reati di cui ognuno era accusato, ma un’associazione: l’associazione di tipo mafioso. Una novità rilevante, che nasceva con la legge Rognoni-La Torre approvata qualche anno prima. Si trattò, infine, di un processo vero, con condanne e anche assoluzioni: il contrario dell’evento-spettacolo di cui qualcuno alla vigilia aveva parlato”.
“La drammaticità dei fatti del ’92, Capaci e via D’Amelio, e poi del ’93, con la strage di Via dei Georgofili a Firenze e le bombe di Roma e Milano, può indurre a pensare che tutto cominci allora. Ma le cose, come ho cercato di spiegare, non stanno così. Quel che accade nell’intero biennio è l’ultimo atto di una lunga catena di eventi: di una guerra che la mafia scatena perché, ripeto, c’è il riarmo dello Stato. Un punto che, prigionieri del mito dell’invincibilità di Cosa nostra, spesso ci si dimentica di sottolineare”.
L’anno segna comunque una svolta. “Certo – riprende il professor Lupo –, per l’intero paese. Non ci sono solo le stragi di mafia, prende avvio Tangentopoli e si realizza il successo elettorale della Lega. Sono gli eventi fondanti della crisi della prima repubblica; e le terribili vicende di cui la mafia è protagonista, va ricordato, sono ancora una volta parte integrante della storia d’Italia”.
La trattativa tra Stato e mafia: oggi è l’argomento principe di tutte le considerazioni sulle stragi del ’92-93. Borsellino, si dice, morì perché si era messo di traverso. “Aspetto lo sviluppo delle indagini. Qualcosa sicuramente è accaduto; ma cosa? Si fa un gran clamore; che la mafia pensasse di contrattare, tuttavia, non è una novità: è sempre successo. Ciò che oggi vien fuori è che la leadership di Cosa nostra provava a impedire l’applicazione di determinate pene. Ma, se hanno parlato con qualcuno, e qualcuno gli ha promesso qualcosa, non mi pare che poi abbiano ottenuto granché. Insomma, tutto questo discutere intorno allo Stato, lo Stato che avrebbe intavolato una trattativa… Io vorrei capire con chi, i mafiosi, abbiano realmente trattato. Intanto, a me pare che lo Stato abbia svolto un lavoro senza precedenti. A confronto di quanto si è realizzato da un certo momento in poi nell’Italia repubblicana, la repressione effettuata dal fascismo fa ridere, mi creda”.
Resta però, obiettiamo, il salto di qualità – di qualità tra virgolette, s’intende – della strategia di Cosa Nostra: i mafiosi passano al terrorismo. Perché? “Sono dentro un tunnel, è una coazione a ripetere. E prendono a modello le metodiche del terrorismo politico degli anni precedenti. Certo, vogliono raggiungere degli obiettivi, annullare i risultati del maxiprocesso. E più fanno rumore, più pensano di farsi sentire. Ma, se c’era qualcuno che prima poteva dar loro ascolto, adesso non può farlo: l’uccisione di Lima, insomma, non ha risolto il problema”.
Sono anni, questi, in cui – la definizione è di Pino Arlacchi – emerge l’idea della mafia imprenditrice. “La mafia imprenditrice era un concetto un po’ fuorviante. Nell’agire della mafia subentrano altri elementi di ‘razionalità’, diversi da quelli tipici di chi fa impresa”. E sopravvive una cultura arcaica… “Sì, la modernità è sempre ibridata con elementi arcaici. Si è pensato a lungo che la mafia fosse figlia del sottosviluppo; poi si è detto il contrario, guardando al sottosviluppo come a un prodotto della mafia. Ma si tratta in ambo i casi di convinzioni errate. La mafia vive nella modernità: è una sua patologia”.
“Oggi? Beh, oggi la mafia siciliana è più debole. Grazie al riarmo dello Stato, dicevo. E se altre mafie sono più forti e aggressive è perché non sono state contrastate a sufficienza. Con una iniziativa che deve rafforzarsi anche su altri terreni: in un sistema finanziario come questo, le mafie, è evidente, possono solo prosperare”.
L’azione dello Stato ha fatto molti passi avanti. Tuttavia, senza la mobilitazione della società civile, senza l’“antimafia sociale”, non è sufficiente. “Non c’è dubbio – risponde in conclusione il professor Lupo –. L’antimafia sociale però deve essere efficace. La propaganda va bene, per carità, purché sia accompagnata da realizzazioni concrete. E, insieme, occorre il buongoverno: che crea le condizioni per meglio combattere i poteri criminali. È scontato, si dirà. Ma il problema resta, dal Sud al Nord”.
(prima pubblicazione: 22 maggio 2012)