La delusione per l’esito della Conferenza di Copenaghen, conclusa senza nessun accordo vincolante sulla riduzione delle emissioni di gas serra, segna uno spartiacque nel confronto fra le Nazioni sul tema del riscaldamento globale. La novità è che, per la prima volta, il tema si è confrontato direttamente con l’economia e con i costi richiesti per raggiungere una soluzione. Che ci sia una scarsa consapevolezza dell’entità dello sforzo finanziario e sociale richiesto dal problema ambientale lo dimostrano, per esempio, articoli come quello pubblicato su “la Repubblica.it” che il 22 dicembre riporta un servizio dal titolo: Quanto ci costa un mondo pulito. Diminuire le emissioni è low cost, riguardante uno studio inglese sull’impatto sui consumatori della riduzione delle emissioni. Il “low cost” è riferito all’impatto sui prezzi del risparmio di energia che, secondo lo studio, non dovrebbe superare il 2% se i Paesi più ricchi riducessero dell’80% le emissioni di gas serra entro il 2050. Quasi di sfuggita il servizio ci ricorda, però, che l’abbattimento delle emissioni richiederebbe lo sviluppo dell’energia pulita, e fra queste lo studio citato enumera non solo l’eolico e il solare, ma anche il nucleare.
In realtà, il dibattito sul riscaldamento globale si è concentrato sulla riduzione dei gas serra a partire dai livelli raggiunti attualmente. L’OCSE, l’Organizzazione dei Paesi più sviluppati, ci ricorda però, in un documento dello scorso ottobre, che proseguendo nel “business as usual” le emissioni cresceranno del 70% entro il 2050 e che, per contenere il riscaldamento globale entro i 2°, la riduzione deve essere compresa fra il 25 e il 40% entro il 2020 rispetto ai livelli del 1990. In pratica, lo sforzo richiesto corrisponde a una riduzione delle emissioni superiore al 100%, se si tiene conto della pura spinta “inerziale” derivante dallo sviluppo economico. Senza considerare, inoltre, che in diversi grandi Paesi, come Russia e India, vengono forniti sussidi pubblici al consumo di energia ad alto impatto ambientale. I sussidi sono forniti, in questi Paesi, per creare un vantaggio di prezzo per l’uso di energia rispetto ai paesi concorrenti. Rimuoverli significa affrontare l’enorme problema di individuare un nuovo sentiero di sviluppo per quei Paesi che tentano di accorciare le distanze rispetto alle economie più sviluppate. L’OCSE calcola che rimuovendo i sussidi al consumo di combustibili fossili si potranno ridurre le emissioni del 30% nei soli paesi che li adottano, percentuale che corrisponde a un abbattimento del 10% se calcolata a livello mondiale. Le economie più ricche saranno disposte a pagare l’equivalente dei sussidi al consumo di combustibili fossili in cambio della loro eliminazione?
Un altro problema con ricadute economiche riguarda la deforestazione. L’OCSE calcola che poco meno del 20% delle emissioni di gas serra deriva dall’attività di deforestazione. Evitando il taglio di un ettaro di foresta si impedisce l’emissione di biossido di carbonio (CO2) sino a 900 tonnellate. In molti casi il taglio delle foreste fornisce risorse importanti per i Paesi poveri. Sarebbe interessate vedere quanta vendita di legame pregiato viene praticata per ripagare il debito estero di Paesi africani e asiatici alle economie più ricche. Saremmo disposti a rinunciare a questi crediti in cambio della riduzione dei processi di deforestazione?
In conclusione, la riduzione delle emissioni di CO2 richiede non tanto un aumento netto dei prezzi dei prodotti che oggi consumiamo, quanto una enorme riallocazione di risorse finanziarie a livello mondiale e all’interno delle economie nazionali. Questa riallocazione cambierebbe la convenienza relativa di molte delle nostre produzioni, manderebbe in crisi settori produttivi che dovrebbero essere riconvertiti o sostituiti. Oltre al debito finanziario delle famiglie, soprattutto americane, come ha messo in evidenza la crisi dei mutui sub prime, ci troviamo a fronteggiare un debito nei confronti dell’ambiente. E i debiti si pagano anche ripensando lo stile di vita seguito sino ad oggi.
Blog Articolo 38: la lezione di Copenaghen