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Stretta da anni nella morsa di una crisi profonda e persistente, l’economia mondiale è oggi anche sempre più obbligata a confrontarsi con le drammatiche conseguenze del riscaldamento globale e del cambiamento climatico connessi alle attività umane. In tale contesto, i rinnovati e più estesi accordi internazionali sulla riduzione delle emissioni di gas serra, scaturiti dalla Conferenza sul clima di Parigi del 2015, rappresentano lo scenario entro cui i paesi avanzati debbono guardare per ottenere il superamento dell’attuale fase di depressione, di cui sono protagonisti, tenuto conto del processo di sviluppo che si è innescato nelle economie di nuova industrializzazione a partire dal nuovo millennio.
Ma se le economie avanzate e in corso di industrializzazione saranno in grado di contenere l’impatto sul cambiamento climatico lo si dovrà anche alla loro capacità di innescare adeguati processi di innovazione dei sistemi produttivi. Non è un caso che a partire dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto nel 2005 – con il quale per la prima volta venivano definiti obiettivi di abbattimento dei gas serra – lo sviluppo di tecnologie per la riduzione della pressione ambientale, rilevato attraverso le statistiche sui brevetti, abbia registrato un andamento esponenziale e in accelerazione rispetto alla dinamica tecnologica complessiva.
Le innovazioni destinate all’ambiente hanno così segnato la traiettoria dello sviluppo tecnologico dell’ultimo decennio e aperto il passaggio verso la green economy, quale nuovo paradigma produttivo coerente con gli equilibri climatici e più in generale con quelli relativi al consumo delle risorse naturali; un paradigma nel quale il richiamo al rispetto degli obiettivi ambientali rappresenta solo il primum movens di un più generale processo di trasformazione dei sistemi industriali e di una divisione internazionale del lavoro centrata su nuove filiere tecnologiche, sulla quale sembra destinato a misurarsi il potenziale di sviluppo dell’economia mondiale.
I recenti dati Unep sugli investimenti mondiali relativi alle tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili (Unep, Global trends in renewable Energy Investments, 2016) sono fortemente indicativi delle dinamiche in atto. Nel 2015, nonostante il perdurante stato di crisi economica globale e il sopraggiunto brusco calo dei prezzi dei combustibili fossili, questi investimenti sono cresciuti del 5% rispetto all’anno precedente, superando persino il loro picco raggiunto nel 2011. Ma ancor più significativo è il “sorpasso” dei Paesi di nuova industrializzazione (con in testa Cina, India e Brasile) sulle economie occidentali e in particolare sull’Europa, dove si sono verificate vere e proprie contrazioni degli investimenti.
Il nuovo scenario risente certamente della recessione in atto in Europa, dove peraltro le politiche di incentivazione – messe inizialmente in campo per favorire lo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili – hanno subìto una forte battuta d’arresto; esso è però anche il risultato del progressivo consolidamento dei processi di innovazione tecnologica che hanno accompagnato l’ascesa dei Paesi di nuova industrializzazione. Inizialmente sospinta dagli investitori esteri, la crescita di questi Paesi è infatti proseguita sull’onda di una capacità di investimento sempre più autonoma, trainata da politiche di sostegno pubblico alla ricerca e innovazione che hanno favorito l’espansione di settori a più elevato contenuto tecnologico.
La conquista di uno spazio di mercato significativo nei settori relativi alle tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili è stata contestuale alla conquista di uno spazio più complessivo nelle produzioni high-tech, contribuendo ulteriormente a irrobustire il processo di innovazione in corso e a cambiare i termini del confronto competitivo con i Paesi occidentali, che in precedenza si giocava su produzioni tradizionali a basso costo. D’altra parte, non è facile delimitare con precisione l’innovazione in campo ambientale. In linea di principio l’innovazione tecnologica finalizzata all’ambiente si può individuare soltanto in base al suo impatto finale su quest’ultimo e, d’altro canto, innovazioni apparentemente più finalizzate all’ambiente (per esempio, quelle relative alla produzione e al consumo di energia) possono avere altri effetti.
Risulta invece senz’altro più soddisfacente richiamare il concetto di “paradigma tecno-economico”, introdotto da C. Perez (Technological revolutions and techno-economic paradigms, Cambridge Journal of Economics, 2010), che si rifà all’idea di un modello di best practice per “l’uso più efficace delle nuove tecnologie” in risposta a determinate necessità di trasformazione del tessuto economico e sociale e nell’ambito della complessa rete di interazioni dei soggetti socio-economici che contribuiscono ai processi innovativi e che costituiscono la base di compiuti sistemi nazionali di innovazione. In questo senso, può dunque risultare più corretto assumere la green economy come “paradigma tecno-economico” orientato dai vincoli ambientali e condizionato nel suo sviluppo dai sistemi nazionali di innovazione in cui prende forma.
L’affermazione dei Paesi di nuova industrializzazione in settori di punta delle tecnologie “verdi” non fa dunque che confermare le dinamiche che la green economy, in quanto nuovo paradigma tecno-economico, sottende. Ma ci costringe anche a considerare con maggiore attenzione le vere criticità che il processo di diffusione di tale paradigma sta incontrando in Europa, al di là delle sia pur significative indicazioni che provengono dai dati sugli investimenti. A questo scopo può essere utile il confronto tra Italia e Germania, che per diversi anni hanno guidato quasi a pari merito la graduatoria dei paesi con i maggiori investimenti negli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Se da un lato la Germania ha investito in ricerca e innovazione per dar vita a filiere produttive che le consentissero di soddisfare il nuovo e crescente consumo energetico, dall’altro l’Italia si è essenzialmente limitata a importare componenti dall’estero, producendo deficit commerciali che – nel caso del fotovoltaico – hanno toccato nel 2010 punte di più di undici miliardi di dollari (Enea, Rapporto energia e ambiente, 2012).
Tali deficit hanno subìto una forte contrazione con il venir meno delle politiche di incentivazione e con l’approfondirsi della crisi economica e il conseguente calo della domanda interna, ma la propensione dell’Italia all’importazione è rimasta immutata e nel frattempo si è pericolosamente spostata sul terreno europeo. Se infatti fino al 2012 le importazioni di pannelli fotovoltaici del nostro Paese venivano fortemente alimentate dalla produzione della Cina, dopo l’introduzione dei dazi europei per combattere l’aggressiva strategia commerciale del gigante asiatico, più della metà della loro quota è coperta dalla stessa Germania.
Il quadro entro cui si sta definendo il progresso della green economy appare dunque estremamente composito, ed esclude semplicistiche contrapposizioni tra Paesi di vecchia e nuova industrializzazione. Ma è inequivocabile il ruolo che le strategie di innovazione adottate dai diversi Paesi hanno giocato e stanno tuttora giocando nel determinare le condizioni che sono in grado di rendere la trasformazione dei sistemi produttivi sostenibile sotto il profilo economico oltre che sotto quello ambientale e di fare della green economy una reale occasione di sviluppo. In questo senso, il confronto tra Italia e Germania rappresenta solo il caso più eclatante di una contrapposizione che in Europa si è prodotta tra Paesi innovatori (prevalentemente nel Nord dell’area ) e Paesi “inseguitori” (collocati nella fascia mediterranea), ovvero tra paesi che hanno accresciuto la specializzazione in settori ad alta intensità tecnologica e paesi che sono rimasti maggiormente ancorati a produzioni tradizionali.
C’è in definitiva un’Europa che procede in ordine sparso di fronte alle sfide che la green economy pone e che per questa ragione potrebbe persino sperimentare un ulteriore deterioramento degli squilibri macroeconomici interni che ne minano la stabilità, e che preesistevano tanto all’entrata in vigore della moneta unica quanto alla crisi economica iniziata nel 2008. L’ambizioso accordo sul Clima definito a Parigi nel dicembre 2015, dovrebbe allora potersi tradurre anche in un’importante occasione di rilancio dell’economia europea; uno stimolo a intraprendere decise e coraggiose politiche di investimento che, assunta la green economy come nuova direttrice dello sviluppo mondiale, riavviino il motore della crescita di tutta l’area, iniziando dalla ricostituzione del tessuto innovativo dei Paesi più arretrati.
Daniela Palma è primo ricercatore presso l'Enea nelle aree dell’economia dell’innovazione e dello sviluppo