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Le dichiarazioni ufficiali dei rappresentanti delle istituzioni europee e dei governi nazionali mostrano consapevolezza del fatto che la crisi occupazionale nella periferia dell’Eurozona, con le sue implicazioni sociali e politiche, costituisce la sfida principale alla tenuta dell’intero progetto europeo. Sebbene ancora non si riesca a rinunciare all’ossimoro di convenzione “crescita nel rigore e rispetto dei vincoli”, il riconoscimento della severità della situazione occupazionale ha indotto la Commissione a intervenire sul mercato del lavoro. Misure significative al riguardo sono previste nella rinnovata European Employment Strategy, irrobustita con il lancio, nell’aprile del 2012, dell’Employment Package e – per il target più specifico delle coorti giovanili – con l’accoglimento, nell’aprile 2013, della Youth Guarantee, o Garanzia giovani in italiano.
Si tratta di un insieme di misure dirette a favorire il buon funzionamento e l’efficienza del mercato del lavoro che, nel caso della Garanzia giovani, hanno lo scopo specifico di migliorare le prospettive dei giovani disoccupati negli Stati membri in maggiore difficoltà. L’ammontare delle risorse stanziate appare inadeguato rispetto alle preoccupazioni per la lost generation, che abbondano nelle dichiarazioni ufficiali. Si tratta comunque di un primo passo per affrontare un problema importante. La domanda cruciale è, però, se questo passo vada nella direzione giusta. Per rispondere, è utile tradurre le raccomandazioni contenute nell’Employment Package e nella Youth Guarantee in grandezze di rilevanza economica.
Gli obiettivi perseguiti sembrano essere tre: la riduzione del costo di assunzione, per migliorare il processo di creazione di posti di lavoro; la riduzione del costo di licenziamento, per aumentare la flessibilità del mercato del lavoro; miglioramento dell’efficienza nel matching tra domanda ed offerta di lavoro. Sostanzialmente, si tratta di replicare nella periferia parte delle riforme strutturali già adottate, unilateralmente, in alcuni paesi del centro, in particolare in Germania, con l’obiettivo di rilanciare la competitività, riducendo il costo del lavoro. L’efficacia attribuita a tali politiche si basa sull’assunto che la riduzione del costo del lavoro indurrà miglioramenti consistenti sia dal lato dell’offerta, grazie all’espansione occupazionale stimolata dalla contrazione salariale, sia da quello della domanda, per effetto dello stimolo alla componente interna indotto dalla contrazione dei prezzi e del tasso di interesse, e dello stimolo alla componente estera, indotto dalla svalutazione del cambio reale. La considerazione, nei recenti modelli monetari, di una rappresentazione di dettaglio del funzionamento del mercato del lavoro in contesti non perfettamente concorrenziali non giustifica, tuttavia, questo ottimismo.
I punti rilevanti sono almeno tre. Primo. Le politiche finalizzate al sostegno specifico dell’occupazione giovanile hanno per necessità effetti molto ridotti e ritardati sull’occupazione complessiva e sul livello di attività economica. Infatti, esse operano rendendo più conveniente l’apertura di un nuovo posto di lavoro rispetto al mantenimento di un lavoratore già occupato. Il punto è che l’analisi empirica mostra che i flussi in uscita (le separazioni) sono relativamente stabili nel tempo e molto ridotti in pressoché tutti i paesi europei. Ad eccezione della Spagna, in cui si registra il tasso di separazione più alto, pari a circa il 6% degli occupati su base trimestrale, le uscite nei rimanenti paesi in media non superano il 3%. Ciò comporta che, nell’arco di un anno, prescindendo dalla variazione occupazionale netta e considerando la struttura per età del salario, la politica agisce su una piccola quota degli occupati e, quindi, del costo totale del lavoro (circa il 10%).
Secondo. Le analisi sono generalmente basate su dati europei medi (questo è, ad oggi, lo stato della migliore ricerca sull’efficacia delle politiche in oggetto) mentre i paesi che effettivamente le adotteranno sono caratterizzati da strutture economiche molto diverse. Non si comprende, pertanto, come tali analisi possano correttamente stimare gli effetti di quelle misure. Inoltre, anche prescindendo dall’eterogeneità strutturale, è verosimile che l’adozione generalizzata di politiche deflattive (quindi di competitività) da parte di paesi appartenenti ad un’area commerciale fortemente integrata abbia una efficacia ridotta, almeno nella componente del saldo con l’estero. L’adozione della stessa politica di contrazione del costo del lavoro da parte di due economie strutturalmente identiche avrà necessariamente effetti nulli sui rispettivi saldi con l’estero, poiché entrambe praticano la stessa svalutazione reale. Più realisticamente, se la politica di competitività viene adottata da più paesi strutturalmente eterogenei, gli effetti saranno non nulli, ma comunque molto ridotti rispetto al caso di adozione unilaterale, come è avvenuto per la Germania in seguito alle riforme del mercato del lavoro dello scorso decennio.
Terzo. Come mostrano molti studi recenti, l’efficacia degli stimoli fiscali dipende in modo cruciale dall’interazione tra politica fiscale e politica monetaria. Essendo quest’ultima orientata alla stabilizzazione dell’inflazione, oltre che al controllo del gap tra prodotto potenziale ed effettivo, una politica fiscale espansiva, inducendo un aumento dell’inflazione e del gap di prodotto, innesca una reazione automatica di politica monetaria (un aumento del tasso di interesse) che tende ad indebolire l’efficacia della manovra. Lo stesso meccanismo, con segno inverso, opera anche nel caso delle restrizioni fiscali, giustificandone l’ipotesi di effetti espansivi, ed è alla base della presunta efficacia delle politiche strutturali del lavoro, dato il loro potenziale deflazionistico. Questo effetto rischia, però, di essere soltanto teorico. Esso, infatti, non si manifesta in due casi, peraltro molto rilevanti nelle condizioni attuali.
Il primo caso è quello dell’inerzia nella gestione della politica monetaria, che attenua l’automatismo dell’intervento. Le stime delle regole di reazione della politica monetaria nell’Eurozona mostrano un alto grado di inerzia nella risposta a scostamenti dell’inflazione dal target. Nel brevissimo periodo, la variazione del tasso di interesse nominale risulta essere, nella media delle stime europee, tra il 15 e il 20% della variazione di inflazione. Il tasso di interesse reale tende quindi ad aumentare temporaneamente a seguito della deflazione indotta dalle politiche strutturali, con effetti depressivi sulla domanda interna. Dato l‘alto peso relativo di quest’ultima rispetto a quella estera (in aumento per la svalutazione del cambio reale), l’effetto netto della politica è una contrazione temporanea del prodotto, ed un miglioramento occupazionale molto contenuto. L’espansione economica si potrà avere solo nel medio-lungo periodo, quando la politica monetaria avrà accomodato la deflazione con una variazione più che proporzionale del tasso di interesse e la domanda interna avrà risposto allo stimolo monetario. La contrazione economica sarà tanto più accentuata e persistente quanto maggiori sono le rigidità e i vincoli di liquidità delle famiglie, per il legame diretto che questi definiscono tra consumi privati e redditi correnti, in contrazione.
Il secondo caso è quello che si verifica durante una forte depressione economica. In questa fase della congiuntura il tasso naturale di interesse (quello che riporterebbe l’economia al livello di reddito potenziale) si colloca in territorio negativo e la situazione può essere interpretata come una forma estrema di quella esaminata in precedenza, ossia di una politica inerziale in tempi “normali”. Quando il tasso di interesse nominale è prossimo allo zero, la riduzione della dinamica dei prezzi indotta dal contenimento del costo del lavoro si traduce interamente e persistentemente (fino a che l’economia non è fuori dalla trappola della liquidità) in aumento del tasso di interesse reale, con effetti ancora più recessivi su consumi ed investimenti. E’ stato verificato che in una tale situazione una riduzione del costo del lavoro pari all’1% del prodotto può indurre contrazioni economiche tra 0,5 e 1,8 punti percentuali, a seconda della parametrizzazione del modello, con effetti negativi (la cui entità può essere limitata) anche sull’occupazione (Beqiraj e Tancioni, 2014). Il meccanismo alla base di tali effetti apparentemente sorprendenti è sostanzialmente lo stesso recentemente descritto nella letteratura sui moltiplicatori fiscali della tassazione in situazioni di trappola della liquidità.
In sostanza, le misure raccomandate dalle istituzioni europee non sono adatte alla gestione di breve periodo del ciclo economico ed occupazionale, potendo avere effetti pro-ciclici rilevanti. La praticabilità della loro implementazione andrebbe considerata in fasi cicliche più favorevoli e comunque senza prescindere da analisi più specifiche o comunque meno approssimative di quelle richiamate dai sostenitori della riforma.
(*ricercatore di Politica economia alla Sapienza)
L'articolo è tratto dal sito eticaeconomia.it