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Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 4 2017 della Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
Un fenomeno certamente poco presente nel dibattito politico italiano, nonostante le pesanti conseguenze sulle possibilità di crescita economica dei prossimi anni, è rappresentato dal fatto che l’Italia è ridiventata, a partire dall’inizio di questo decennio, un Paese di emigrazione. Si tratta di un fenomeno che, moltiplicato dall’andamento negativo del ciclo economico e dal conseguente rilevante incremento della disoccupazione, riguarda soprattutto i giovani e in particolare quelli qualificati.
In base ai dati Istat disponibili (settembre 2017), tra il 2010 e il 2015 gli italiani emigrati all’estero sono oltre 430.800 e di questi 122.094 i giovani (classe di età 20-34 anni), di cui 32.838 laureati. Che si tratti di un’emigrazione di giovani altamente formati è confermato dal fatto che, se si includono i diplomati, si raggiunge un valore superiore a 75 mila individui (Istat).
Una delle caratteristiche salienti della mobilità transnazionale di soggetti italiani qualificati è rappresentato dalla mancata compensazione di queste uscite con flussi in entrata comparabili di giovani stranieri laureati. In termini assoluti, nel periodo 2010-2015 circa 5 mila individui con un titolo assimilabile alla laurea sono immigrati in Italia. Il problema dell’Italia non appare dunque tanto rappresentato dal numero assoluto della popolazione di laureati che emigra – di molto inferiore a quello che si registra in Francia o nel Regno Unito – quanto piuttosto dalla mancata compensazione da parte di lavoratori immigrati con analogo livello d’istruzione e, per altro verso, dalla bassa probabilità di un rientro di quanti sono emigrati.
I costi economici dell’emigrazione altamente qualificata sono assai elevati, poiché diminuiscono il potenziale produttivo e aumentano i rischi di non sostenibilità della spesa sociale, soprattutto nel caso di un Paese, come l’Italia, fortemente indebitato e con una crescita sostenuta dalla popolazione anziana. Tuttavia, quantificare questi costi nel loro insieme non è affatto semplice, in quanto i dati disponibili non consentono di isolare con sufficiente significatività statistica gli effetti che il fenomeno produce sulla produttività e quindi sulla competitività di un Paese.
È però praticabile la stima di quelli che sono i cosiddetti costi fiscali sopportati da un Paese di emigrazione. Questi possono essere ricondotti essenzialmente a due tipologie: la prima è rappresentata dalla spesa sostenuta per l’istruzione di chi poi è emigrato all’estero; la seconda è invece costituita dalla perdita di gettito da imposte e contributi sociali che i laureati emigrati avrebbero pagato qualora occupati in Italia.
Nel primo caso si tratta di un costo certo, che si può determinare moltiplicando il numero di emigrati con titolo di studio terziario per le spese sostenute nel Paese di origine per la loro istruzione. Nel secondo caso, ove è più corretto parlare di un costo ipotetico, si tratta di moltiplicare il reddito medio che l’emigrante avrebbe percepito in Italia per la percentuale media di tassazione applicata al netto della spesa sociale pubblica per individuo. Una stima che, per avvicinarsi maggiormente al dato reale, comporterebbe una conoscenza dell’età, della tipologia del titolo di studio terziario e dell’esperienza lavorativa di chi emigra: tutti dati di cui purtroppo al momento non si dispone. Tuttavia, pur con questi limiti, considerando esclusivamente gli emigrati italiani laureati della fascia 20-34 anni del periodo 2010-2014, si stima un costo complessivo per l’istruzione di ciascun emigrato pari a poco più di 121.500 euro.
Per quanto attiene alla stima delle potenziali mancate entrate che saranno causate dall’emigrazione di quello scaglione di laureati, si è assunta l’ipotesi di uno stipendio medio di 41 mila euro annuo (job pricing 2016) con le attuali aliquote Irpef. A queste entrate potenziali si è sottratto la mancata spesa pubblica pro-capite per la sanità, l’assistenza, e l’istruzione dei figli. Assumendo quindi 30 anni quale periodo medio di vita lavorativa di tutti i soggetti emigrati, il valore delle mancate entrate per il Paese in rapporto a ogni singolo emigrante è pari, al netto delle spese sociali, a circa 201 mila euro. Ne consegue che il costo fiscale complessivo sostenuto dall’Italia per gli oltre 32 mila laureati emigrati nel periodo 2010-2014 è dell’ordine di 10.595.844.000 euro.
Questa consistente emigrazione intellettuale, non compensata da afflussi immigratori di uguale livello di istruzione, comporta quindi per Italia una situazione particolarmente costosa, non solo per gli investimenti pubblici a cui non corrisponde il rendimento atteso, ma anche, e soprattutto, per gli effetti negativi che questa implica sulla competitività e quindi sulle opportunità di sviluppo del Paese nei prossimi anni.
Un approccio a partire dal quale sarebbe forse possibile operare per una “riduzione del danno” è quello di considerare questa emigrazione ad alta qualificazione come una diaspora scientifica ancorché allo stato attuale solo in potenza. Se si valorizzassero le diverse comunità di italiani all’estero come diaspore, esse potrebbero divenire, attraverso opportuni supporti, strumenti riconosciuti di molteplici scambi con i luoghi di produzione (di conoscenza, ma anche di manufatti e di servizi) della “madrepatria”.
È evidente che per valorizzare questa diaspora è necessario superare i singoli network e le loro dimensioni necessariamente specifiche (e/o locali), per dare vita a reti più ampie. Esse potrebbero essere articolate per settore professionale, area geografica ecc., e divenire punti di riferimento per gli italiani che si trasferiscono in determinate aree o per coloro che cercano contatti utili in quelle zone e soprattutto per consolidare un opportuno e stabile collegamento con gli omologhi italiani.
Francesco Gagliardi è ricercatore dell’Irpps-Cnr