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Due pagine intere del Manifesto riassumevano ieri, 27 novemvre, il dibattito, a tratti crudele, sulla crisi del giornale e sulla prospettiva che si apre, con la coraggiosa approvazione dell’assemblea dei redattori, dell’ipotesi di costituire una nuova cooperativa che, dalle ceneri della vecchia lasciata al suo destino a conclusione del periodo di amministrazione controllata, permetta di mantenere in vita il quotidiano. Considerate le premesse, si dovrebbe essere soddisfatti e incoraggiare gli sforzi di chi sta cercando di tirare fuori, anche con pesanti sacrifici personali e professionali (non tutti i redattori saranno riassunti nella nuova società), una testata, al cui destino dovremmo essere interessati tutti, dalla palude in cui si trova, più per vizi dell’ecosistema dell’informazione del nostro paese che per demeriti di chi la guida e amministra.
E, invece, succede che si susseguano dichiarazioni e atti di segno diverso, con dimissioni di collaboratori prestigiosi, accompagnate da petizioni e raccolte di firme che, a quanto è dato capire, mettono insieme dissensi di linea politica e editoriale, delusioni e risentimenti personali, inquietudini professionali serpeggianti da tempo ed emersi tutti insieme proprio nel momento in cui forse ciascuno avrebbe dovuto, con una generosità che non sarebbe sembrata mal riposta, prendersi sulle spalle un pezzo della pesante responsabilità di superare la crisi dando fiducia a chi sta cercando seriamente di trovare la strada giusta per riuscirci.
La crisi non è solo del Manifesto, come sappiamo; riguarda tutta l’editoria cooperativa e locale e ruota intorno a un fatto la cui valenza politica (e perciò tutt’altro che neutra) è clamorosamente evidente: il fondo per i contribuiti all’editoria è stato ridotto ai minimi termini e - causa la scomparsa del cosiddetto diritto soggettivo che garantiva (anche se in ritardo cronico e in misura insufficiente) l’erogazione dei finanziamenti - non è più, almeno dallo scorso anno, quella modesta ma certa dotazione che permetteva a molte testate di sopravvivere continuando a svolgere la loro funzione di arricchire l’informazione del paese e il pluralismo delle sue voci.
Così avviene, senza che si gridi allo scandalo, in tanti paesi (lo dimostra, da ultimo, uno studio dell’università di Oxford), nei quali contributi diretti e indiretti, spesso in quantità superiore a quella italiana, vengono destinati dallo stato o dalle istituzioni territoriali per sanare – anche lì – quel “fallimento del mercato” che devasta la stampa, particolarmente in una fase storica nella quale sta nascendo, ma non è ancora nata, l’alternativa digitale alla carta.
Il taglio da noi è avvenuto, ammettiamolo francamente, nella pressoché totale indifferenza (o addirittura con il favore) dell’opinione pubblica, anzi sfruttando un sentimento agitato demagogicamente, e alimentato dalla presenza di truffatori di professione che hanno lucrato provvidenze non dovute, che scambia quello che dovrebbe essere un interesse di tutti (perché tutela per primo il diritto dei cittadini a essere informati quanto più ampiamente possibile) con il privilegio di pochi.
Gli stessi partiti, che in parlamento avrebbe potuto ribaltare questa situazione, si sono mossi timidamente o per niente; ci sono state iniziative di gruppi e gruppetti di parlamentari, emendamenti, proposte di legge, richieste di integrazione del fondo che, pur acquisendo adesioni che in taluni casi sono parse addirittura maggioritarie nei due rami del parlamento e che avrebbero dunque dovuto condizionare il governo a una superiore volontà, alla fine non hanno portato a nulla, mentre sullo sfondo (diciamo così, ma in realtà è questo il centro del quadro) stati di crisi e chiusure si sono prima annunciati e poi puntualmente verificati.
Il Manifesto è allora il caso più illustre ed anche il più rappresentativo, perché la crisi investe soprattutto (anche se non solo e non per poco) l’intera stampa di sinistra, dal settimanale Carta – il primo a cadere – all’Unità a Rassegna Sindacale; si tratta di giornali che più degli altri hanno sofferto in questi anni gli insopportabili esiti dello squilibrio del mercato pubblicitario (da questa fonte arriva oltre la metà delle entrate dei grandi giornali, che pure proclamano stati di crisi, come da ultimo l’Espresso) e dell’anomalia rapace del persistente duopolio televisivo, tutt’altro che inficiato dai tentativi di inserimento di nuovi soggetti.
Si è sostenuto, in questi anni, che la correzione del sistema dovesse cercare i finanziamenti necessari (anche da destinare al fondo dell’editoria visto perciò come una sorta di fondo perequativo) in un prelievo aggiuntivo dalla pubblicità, a cominciare da quella televisiva, nell’adeguamento dei canoni di concessione delle televisioni pubblica e private, nei proventi della vendita delle frequenze digitali. Adesso, finalmente, arriva una novità. È stato accolto dal governo un ordine del giorno presentato dal senatore Giulietti che impegna il ministro competente ad effettuare l’asta delle frequenze digitali entro l’anno e a destinare una quota del ricavo della vendita (difficile prevederne l’entità) al fondo dell’editoria – magari sgravandolo anche del debito di circa 50 milioni di euro nei confronti delle poste per le tariffe postali agevolate degli anni passati – in modo da renderlo sufficiente per chiudere la falla che si è aperta.
Non si dovrà attendere molto per la prova della verità, la fine dell’anno è vicina e le procedure perciò debbono essere espletate rapidamente. In queste stesse settimane dovrebbe riprendere il suo cammino il disegno di legge delega “in materia di sviluppo del mercato editoriale e di ridefinizione delle forme di sostegno” che fissa in un anno il tempo concesso al governo per esercitare la delega stessa approvando un testo che sostituisca la vecchia normativa. Il relatore, Ricardo Franco Levi, ha intenzione, come ha chiarito nell’assemblea di tutte le associazioni della stampa italiana della scorsa settimana, di stringere tempi e contenuti per arrivare all’approvazione almeno in uno dei due rami del parlamento prima della fine della legislatura, così da consentirne la ripresa nella successiva.
Alcuni i punti fermi preannunciati: conferma dei contributi diretti e utilizzazione degli strumenti classici (credito agevolato e credito di imposta) per l’innovazione necessaria (è il grande capitolo del passaggio al digitale); in più una serie di misure di sostegno alla domanda, e in particolare alla domanda di informazione tramite le nuove tecnologie, ancora tutte da definire e – noi temiamo, ma speriamo d’essere subito smentiti – tutt’altro che chiare.
Qualcosa si sta allora muovendo, se alle dichiarazioni seguiranno atti coerenti; e se si decideranno subito interventi straordinari (con le cifre modeste che occorrono a non chiudere l’ossigeno) per impedire che la riforma – anche la riformetta preannunciata da Levi e ci auguriamo officiata da un governo e un parlamento più sensibili alle ragioni del mondo dell’informazione cooperativa e di idee – arrivi quando non ci sarà più nessuno in condizioni di beneficiarne.
Per questo, vogliamo dire ai colleghi del collettivo del Manifesto di stringere i denti, di andare avanti nel loro tentativo di salvare la testata, sia pure chiudendo la vecchia cooperativa e fondandone una nuova. In questo momento siamo tutti del Manifesto (perché siamo anche di Rassegna Sindacale, dell’Unità, di Carta …). Le nostre firme valgono poco, ma se servono sono a disposizione.