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Come ogni anno la Rivista delle Politiche Sociali organizza in collaborazione con ESPAnet-Italia un Forum di analisi su temi di rilevanza sociale individuati anche in ragione della loro attinenza, diretta o indiretta, con le politiche sociali.
In questa edizione l’approfondimento è dedicato alla classe dirigente pubblica, e il nesso in positivo con il welfare è rappresentato dalla convinzione che la disponibilità ai vari livelli di governo e nei vari ambiti e dimensioni di intervento di politiche inclusive, integrate e pluraliste, imperniate su istituzioni capaci di costante rinnovamento perché aperte al contributo delle forze sociali e della cittadinanza, siano condizione essenziale per lo sviluppo economico e sociale di ogni collettività. In relazione a ciò è evidente che le vicende soprattutto dell’ultimo quinquennio, con l’avvio incessante dei tagli al welfare e di altrettanto incessanti manifestazioni di inefficienza e malaffare da parte di molta della politica nazionale e regionale (spesso con ruoli di gestione nella sanità, ma non solo) hanno fornito gli stimoli per la nostra prima ideazione intorno al Forum, continuando poi a confermarci nel tempo la validità dell’ipotesi iniziale.
In questa breve nota si accennerà ad alcuni degli argomenti che sono stati alla base di tale scelta, anche se solo marginalmente riproposti durante i lavori, in cui si è optato per lasciare maggiore spazio alla declinazione dei temi ritenuti più determinanti per la crescita del ruolo di governo e della capacità amministrativa della nostra classe dirigente pubblica.
Un primo argomento sullo sfondo deriva dalla messa in discussione sempre più profonda e diffusa delle élites dirigenti, in particolare di quelle pubbliche. Si annodano in questa critica un coacervo di ragioni anche distinte. Alle critiche circa la frequente inadeguatezza delle élites italiane, ancor più vistosa di fronte alle sfide imposte dalla crisi economica e politica nazionale, europea e mondiale e della spesso immeritata fruizione di condizioni di vantaggio, si somma un non condiviso sentire ideologico, talvolta strisciante e mai sopito, contrario a ogni funzione regolativa dello Stato, in economia come nel sociale. Fatte le dovute distinzioni e prese le distanze da queste posizioni, il prossimo Forum di Rps dedicato alle classi dirigenti si riconnette almeno in parte all’analoga “interrogazione” sui populismi europei montanti realizzata nell’edizione precedente (cfr la Rivista delle Politiche Sociali n. 1/2012). Il filo di continuità è rappresentato dall’attenzione per la relazione – che sarà ancora analizzata – fra governanti e governati e fra gli output attesi dalle politiche sociali e capacità della politica di assumerle come uno dei presupposti della sua stessa ragion d’essere.
E dunque, quali sono le cause dell’inadeguatezza e dei comportamenti (eccessivamente) devianti delle nostre élites nazionali? Superando la tentazione di procedere elencando, certamente risaltano i fattori storici, fra cui l’iniziale costruzione di uno Stato fragile data anche la mancata identificazione popolare nelle istituzioni; le asimmetrie fin dai processi iniziali di costruzione dello Stato unitario fra processi di unificazione politica e amministrativa, nonché l’ipertrofia di entrambe le componenti generate; il divario territoriale e le vocazioni differenziate delle due popolazioni verso il rapporto con la politica e con la burocrazia; gli intrecci fra politica, amministrazione e affari; lo sviluppo del clientelismo e i fenomeni di collusione con la criminalità.
Sullo stato dell’arte poi, secondo riflessioni recenti, le élites italiane, complessivamente intese, piuttosto che configurasi come classe dirigente nazionale rappresentano in effetti una sommatoria di ceti privilegiati, sulla cui variegata morfologia hanno influito le condizioni di status e le opportunità distintive acquisite o accessibili. Incapaci di assumere su di sé le responsabilità connaturate a ogni ruolo dirigente, sul piano storico esse sembrano aver alternato opzioni di delega alla politica (quando lo scopo è stato il mantenimento dello status quo e nelle esperienze concrete del fascismo e del berlusconismo) con aperture verso élites non colluse, quando il superamento di quelle esperienze-limite abbia richiesto sapere e capacità (G. Galli, I riluttanti. Le élites italiane di fronte alla responsabilità, Laterza, 2012).
E in effetti la questione del cosiddetto “vincolo esterno” non è stata irrilevante nell’ispirare la scelta tematica di questa annualità del Forum. È arcinoto come l’evocazione ricorsiva di un’Europa intesa quale entità astratta, ma assolutamente volitiva e capace di imposizioni incontrovertibili, da oltre un decennio abbia influito in questa forma sul ciclo delle riforme nazionali, in un crescendo culminato nel 2011 nelle decisioni relative alla scelta del governo tecnico. Comunque la si pensi al riguardo, stando al tema di nostro interesse, è il caso di notare che questa scelta rappresenti, purtroppo non solo da oggi né solo in ragione dell’inadeguatezza del governo Berlusconi, un’altra significativa manifestazione della debolezza dello Stato (e della politica) in Italia.
Secondo la ricostruzione fatta da Sabino Cassese in un suo recente saggio, la questione del “vincolo esterno” era già stata descritta da Guido Carli circa vent’anni addietro come condizione di garanzia per il mantenimento del nostro paese “in una comunità di paesi liberi”. Scriveva Carli nel 1993: “Ho informato la mia azione all’idea che per il nostro paese la presenza di un vincolo giuridico internazionale avesse una funzione positiva agli effetti del ripristino di una sana finanza pubblica, ritenendo, pessimisticamente, che senza questo obbligo difficilmente la nostra classe politica avrebbe mutato indirizzo” (S. Cassese, L’Italia: una società senza Stato?, il Mulino, 2011, p. 103). Oggi, lo sappiamo, la questione del vincolo esterno è stata incarnata dalla realizzazione degli obiettivi imposti dalla Ue e dagli organismi economici internazionali e, nondimeno, dalla nomina un anno fa del governo tecnico che ci avrebbe più probabilmente messo in grado di raggiungere quegli obiettivi e recuperare la perduta credibilità internazionale. Si tratta in ogni caso di una situazione cui si attaglia la definizione data di “sospensione della politica” e forse anche la critica di un eccessivo consolidamento della discutibile delega a un “governo ombra di tecnocrazie ministeriali” (T. Boeri, “Mettiamo un tetto ai burocrati di Stato”, in Repubblica, 5 novembre 2012).
Ed è tenendo conto di tutto ciò che il contributo del prossimo Forum di Rps si impernierà nel suo complesso su alcuni snodi cruciali leggibili in filigrana nel programma, concentrandosi quindi sull’analisi del valore della competenza (e approfondendo a tal proposito anche quelli che attualmente sono i principali criteri e canali di reclutamento e formazione); dell’omogeneità dei comportamenti nelle azioni amministrative sia a livello territoriale che settoriale (come “antidoto” delle variazioni eccessive in alcuni casi/aree/servizi e alle disuguaglianza di opportunità); dell’imparzialità dell’azione amministrativa (in relazione al mantenimento della fiducia nelle istituzioni e come salvaguardia dai fenomeni di corruzione); dell’efficacia dell’azione amministrativa, per poterne valutare e misurare gli effetti.
Va menzionato infine che, anche allo scopo di sottolineare l’influenza delle variabili di contesto nell’operato del ceto amministrativo – che è lungi dal poter essere considerato a sé stante rispetto all’ambiente socio-economico, culturale, istituzionale e civico di riferimento – l’accento sarà posto sulle classi dirigenti nelle loro articolazioni di governo centrale, regionale e locale quali espressioni di differenti realtà istituzionali e tradizioni amministrative. L’intenzione in questo caso è di sottolineare le capacità – non sempre evidenti o riconosciute – di realizzare esperienze eccellenti nella gestione pubblica, soprattutto a livello locale, effettivamente presenti nelle varie zone del paese.
* Direttore della Rivista delle politiche sociali